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Pleniluni e quarti di luna

 

QUARTI DI LUNA

Divagazioni dal fondo del pozzo

(gennaio-febbraio 1997)

1.   Lune e lunatici

 

1.0 Introduzione

1.1 Avere i quarti di luna

1.2 I lunatici

1.3 Saffo, all’origine

1.4 Antiche storie

1.5 E noi?

1.6 Talete

1.7 I poeti

1.8 I simboli lunari

1.9 La luna classica. Dal Rinascimento a Tasso

1.9.1 Il Cariteo

1.9.2 Maurice Scève

1.9.3 Chiara Matraini

1.9.4 Laura Battiferri

1.9.5 Giordano Bruno

1.9.6 Celio Magno

1.9.7 Torquato Tasso

1.10 La luna romantica

1.10.1 Victor Hugo

1.10.2 Charles Baudelaire

1.10.3 Gérard de Nerval

1.11 Finalino del chiaro di luna

1.0 Introduzione

Più che il sole, signore luminoso di un mondo illuminato, la luna stride con quanto la circonda: poche stelle appena luminescenti, brillio polveroso incapace di dare luce vera. Quando la dea della notte, Selene luccicante di lustrini, appare nel suo fulgore, come fa puntuale tutte le ventinove volte che il suo fratello maggiore diurno si è mostrato press’a poco sempre uguale, il contrasto con il panorama notturno è sconvolgente.

Tutto appare chiaro, di giorno: ma quel luminare che getta ombre nell’ombra, nitide fra lame di luce argentea e azzurrina, indica soprattutto ciò che è oscuro. Ci pareva di conoscerla bene, la quercia fronzuta laggiù; immersa nel liqui­do chiarore lunare, appare altro, dimora di elfi e coboldi, riparo di una driade gentile, o anche solo ingresso al rifugio sotterraneo di mortali innamorati, fatti eterni dal loro sentimento. Chissà! La luna ci pone problemi di tal fatta; la soluzione, ci dice, non cercatela. La conosce forse lei sola, che, dicevano gli antichi, abita il cielo la terra gli Inferi: a noi non è data.

Insomma, quella della luna è la luce del mistero. E altro di affascinante per l’uomo, a questo mondo, non c’è.

I poeti, gli scrittori, lo hanno sempre saputo: da coloro che inventarono il grande mito egizio di Iside o Osiride, o la gentile favola greca di Endimione, fino al moderno menestrello che, abbandonato il liuto per i campionatori e i computer, spesso non trova di meglio che ricorrere ancora all’ispirazione antica concessa dell’astro della notte.

Discorrere della luna nella letteratura sarebbe compito infinito, non basterebbero le lune della vita. Per questo ci limiteremo a qualche digressione, a incursioni soprattutto in ciò che è stato scritto in italiano e francese, suggerite da modi di dire popolari che mostrano l’importanza dell’astro notturno anche per il sentire più semplice.

 

1.1 Avere i quarti di luna

«Avere i quarti di luna»: essere di umore variabile. Lo sono tutti gli uomini, lo sono più degli altri i letterati, il cui compito è rappresentare i propri quarti di luna, come affermava Cesare Pavese nel più lunatico dei suoi libri, Dialoghi con Leucò. La regina della notte, l’algida Turandot del cielo, induce alla saggezza o alla follia, all’amore o al vampirismo, alla santità o all’esperienza dannata del lupo mannaro. Tutto è possibile alla sua mutevole luce: quello che stanotte appare chiaro e distinto, fra una settimana, quando l’ultimo quarto di luna sarà una falce sempre più sottile, già trascolorerà per finire nel nulla del novilunio, gravido di una nuova vita, di successive rinascite e morti.

1.2 I lunatici

I lunatici, coloro che non sanno staccarsi dai ritmi alternati imposti dall’astro, sono creature strane, tanto più lontane dalla (presunta) normalità quanto più devoti a Selene. Cercano, dice l’adagio «la luna nel pozzo». 0 scendono, a volte, nel pozzo, a cercarla questa falsa luna, come Narciso nel fonte, a loro rischio e pericolo. Hanno un’illusione: che sia più facile, a portata di mano in qualche modo, impadronirsi del riflesso piuttosto che della sorridente e ingannevole luce della notte. Il fondo del pozzo, questo luogo scomodo che promette però la verità, è la loro sede privilegiata.

In un modo o nell’altro, gli autori di cui diremo ci parlano dal fondo di un qualche pozzo, dove hanno cercato una loro illusoria verità, donde hanno intrapreso il loro viaggio nella letteratura. Scrittori sotto il segno della luna. Divagazioni sulla loro opera, dal fondo di un pozzo di secondo grado, nel cui liquido grembo si riflette il riflesso che la luna lascia in altri pozzi, dove trova più facile entrare.

  

1.3 Saffo, all’origine

Ma da qualche parte bisogna pur cominciare... Lasciamo la parola, per un mo­mento, a Saffo.

Piena splendeva la luna

quando presso l’altare si fermarono:

e le Cretesi con armonia

sui piedi leggeri cominciarono

spensierate a girare intorno all’ara

sulla tenera erba appena nata.

               (Saffo, trad. Quasimodo)

Nella sua, elegante traduzione, Salvatore Quasimodo arrangia i frammenti di Saffo in modo assai coinvolgente: il continuo girare della luna intorno alla terra è identificato con quello di una danza tonda femminile, un’emmelèia, seria manifestazione dell’arte tragica. Colpisce un aggettivo: spensierate, attribuito alle danzatrici e implicitamente alla luna. La luna non pensa, ci fa pensare; il pensiero non le appartiene, ma è essa a suggerirlo; è un ente esterno a noi che lo catalizza in noi. Troveremo echi di quest’idea in Leopardi (o forse è il recanatese a influenzare Quasimodo... la luna somiglia a uno specchio e con i giochi di specchi non si sa mai).

1.4 Antiche storie

Certo, la luna dev’essere stata intrigante fin dall’inizio. Più del sole, prevedibile, in fondo, nel suo maestoso rotare in cielo sgombro di altre stelle (ma già un osservatore di pozzi, Aristotele, aveva notato che esse si rifugiavano, di giorno, sul fondo di pozzi profondi). L’astro maggiore torna sempre uguale a se stesso, non cambia, al massimo è più alto più basso sull’orizzonte. La luna a volte è tonda, a volte si riduce a falce sottile, a volte nega al cielo la propria presenza. Appare circondata da un corteo di stelle. Immaginiamola, nel firmamento intatto e splendido di un’isola egea, come poteva essere la Lesbo di Saffo: presenza familiare, tuttavia irraggiungibile e altera.

La luna nasce, cresce, decresce, muore... rinasce: non è mai definitivamente morta. Questo la lega ai ritmi biologici, alla natura, ciclica, non lineare, un tempo che passa e infinitamente ritorna su se stesso.

Solo un altro astro ha tali variazioni: il pianeta Venere, anch’esso al centro di mitologia intriganti.

Gli egiziani avevano messo la luna (divenuta dèa: Iside) al centro di una stra­na storia, che spiegava l’alternarsi del giorno e della notte; storia crudele, poiché Osiride, il sole, veniva ucciso e fatto a pezzi, dispersi nel mondo, e Iside, inconsolabile, lo ricercava...

I greci pure giocarono coi miti, a proposito della luna, che abita a volte il cielo (è allora Selene) la terra (Artemide) gli inferi (Ecate); la sua storia è legata a quella di Persefone: le fasi lunari intrecciati alle stagioni. Erano lunatici, e consapevoli di esserlo.  

 

1.5 E noi?

Lunatici, siamo anche noi. Che aspettiamo ogni mese la luna. Che su di essa ci regoliamo per seminare, per portare il bambino dal barbiere, per imbottigliare il vino sempre secondo l’andare dell’astro nel cielo.

Noi guardiamo la luna, e in essa vediamo il nostro stesso tempo che scorre. Essa è cioè uno specchio, un lucido specchio nel quale si credeva di vedere, un tempo, qualche personaggio all’origine della stirpe umana, Adamo, o Caino (Dante, secondo canto del Paradiso). Per questo, credo, non la dobbiamo cercare nel pozzo: il riflesso lì dentro non riflette noi stessi, ma un vuoto apparire dell’astro che nasce e non nasce da noi.

Siamo, in fondo, noi, posati sull’acqua del pozzo. Siamo quell’acqua: se la luna riflette la nostra esistenza, noi riflettiamo la sua, dunque...  

 

1.6 Talete

Ci sono molte storia legate a Talete di Mileto, il primo sapiente di Grecia, colui che trasferì sulle sponde ioniche la sapienza egiziana. Nelle sue mani venne una coppa d’oro, destinata all’uomo più sapiente di Grecia, che sembrava provenire direttamente da Apollo gemello di Artemide: immagine luminosa che lo lega per sempre al cielo. Nell’Antologia palatina c’è un epigramma che ricorda la sua morte per vecchiaia, mentre assisteva a una gara sportiva

Lui spettatore d’un agone ginnico, o Zeus Elio,

          rapisti dallo stadio, il saggio Talete.

Hai fatto bene a condurtelo più vicino: il vecchio

          dalla terra non riusciva più a vedere le stelle.

Quest’uomo, legato al cielo, a quell’irraggiungibile lassù, contemplava il cielo notturno, e la luna con più attenta cura, se, stando ad Esichio, «trovò che le eclissi solari sono causate dalla luna quando nel suo correre si trova sotto al sole». Proprio osservando la luna e le stelle, ci racconta Platone, cadde in un pozzo, suscitando l’ilarità di una servetta tracia, che gli rimproverò di conoscere le cose del cielo e non quelle della terra.

Il filosofo immaginò, forse proprio dal fondo del pozzo, che ci fossero, cosi come delle Iadi nel polo settentrionale, delle altre in quello meridionale.

Glielo suggerì l’acqua di laggiù, quella su cui, secondo la sua opinione, la terra galleggiava come un sughero immenso, quella che era principio di tutto. La stessa acqua che univa il porto di Mileto con l’Egitto, dove era nata la geometria.

Di notte, l’acqua del mare riflette la luna, quasi una coppa d’oro sommersa e luminosa; di giorno, la luna si vede sul fondo di certi pozzi profondi, dice da qualche parte Aristotele: lo abbiamo già ricordato.  

 

1.7 I poeti

A guardare il cielo, fin da subito, con i filosofi-astronomi furono i poeti.

Andate una sera di luna piena, sul mare, meglio in qualche isola dove non siano ancora fiaccole e luminaria. L’orizzonte, perso nell’ultima luce del cielo lunare, insinua l’idea della fine. Ecco, là dove scompare anche l’ultima stella, dove la linea incerta del nulla si perde anch’essa in un limite confuso. Là tutto finisce. E dopo? cosa ci sarà, dopo? Ecco, è l’ora del tramonto. La luna affonda nel mare, oltre quell’incerto confine: lo saprà, Selene, quel che c’è, oltre: forse, domani, quando ritorna, ce lo dirà. Chissà se l’ha detto a Endimione, nelle notti d’amore, quando si nega agli uomini.

Possiamo tornare, ora; ci basterà la luce delle stelle.

Quattordici giorni dopo, novilunio. Solo le stelle, sul mare. Gli occhi dell’Orsa ci fissano, dall’algido nord. Selene è col suo Endimione, chissà in quale mirteto, chissà in quale emisfero. E’ il momento dell’attesa e della malinconia:

Dov’era la luna?  

canta il poeta.

Già, dov’era? era lei quel fru fru fra le fratte, quel tintinno a porte che ormai non s’aprono più? Il lutto per la sua assenza è la stessa oscurità notturna. Tutto il mondo la piange, come Persefone quando scende ad Ade. Ce lo ricorda il grido di morte dell’assiolo, udito da un grande lunatico, Giovanni Pascoli.  

 

1.8 I simboli lunari

Luna e immortalità: la morte è simboleggiata dalla scomparsa della Luna, ogni novilunio, ma l’astro ritorna, subito dopo, come promessa di rinascita.

Artemide/Diana, identificata in antico con la luna, è spesso rappresentata sopra una falce di luna crescente; in ambito cristiano stesso trattamento viene riservato a Maria (legata ad Artemide dall’attributo della verginità). Giunone Lucina, che presiede ai parti, porta anch’essa un crescente di luna, fra i capelli. Luna crescente, simbolo dunque di castità e nascita. La mezzaluna crescente è simbolo dell’Islam, equivalente alla croce per i cristiani.

Artemide/Luna è la dèa selvaggia della natura, impietosa, soprattutto verso le donne che cedono all’amore; però protegge le donne incinte, in vista dei figli a venire. Poiché è vergine, è protettrice del parto. Il suo culto è forse legato a quello della Grande Madre asiatica ed egea (Efeso, Delo). Aspetto geloso della madre.

Selene gira su un carro trainato da cavalli bianchi: il bianco, ancora, è un colore legato alla purezza, alla castità: ed è il colore della luna in cielo.

Avere la luna; o avere i quarti di luna; avere la luna storta: in questi modi di dire il riferimento è ancora alla ciclicità: si hanno i quarti di luna, per fortuna non sempre, solo ad intervalli, e allora si diventa intrattabili.

Il mondo della luna ha le sue maschere, le sue musiche, i suoi colori. Bianco, il più freddo degli azzurri, grigi d’acciaio e di grafite, nero, tanto nero. Luce, su tutto, d’argento. Freddo glaciale, dunque, insensibilità. E volubilità.

Presiede alle serenate, il nostro astro: chitarre, mandolini, un clavicembalo forse, che accompagnano un tenore dalla voce sottile e penetrante; oppure gli arpeggi in do minore, un pianoforte smorzato e cupo, gli accordi impressionisti di Claude Debussy.

Pierrot, soprattutto, la sua lacrima pietrificata, il largo jabot, il cappelluccio e la boccuccia arrotondata sul viso bianco e tondo come la luna, è il prototipo del lunatico. Insieme con lui Pulcinella... Ma tutto il mondo delle maschere è legato alla luna: tanto che uno scenario secentesco di Commedia dell’Arte porta Arlecchino nel mondo della luna.

La Luna è capace di aprire le porte del cielo e quelle dell’inferno: sta, come Selene, a guardia delle prime, come Ecate, a controllare le seconde.  

 

1.9 La luna classica. Dal Rinascimento a Tasso

1.9.1 Il Cariteo

Vediamo un sonetto di un poeta del pieno Rinascimento, versificatore elegante di un’epoca che ne ha prodotti parecchi, e di una città, Ferrara, che tornerà nelle nostre considerazioni. In questo testo di Benedetto Gareth detto il Cariteo (1450ca - 1514), il gioco verbale ancora impacciato è centrato sul rapporto donna amata (la sola, l’una per il poeta)/luna: ambedue reggono il destino dell’/di un uomo, ce n’è una sola (nel mondo e nel cielo) e semina il gelo (notte nel cuore). La metafora lunare mette in contatto terra e cielo: la bellezza dell’amata abita il cielo, il suo gelo genera l’ardore della passione.

Siparietti letterari, che sembrano a tratti nascondere la grande forza tragica del mito; tuttavia, essi non sarebbero possibili se, nel fondo delle anime, non fosse depositato quel fuoco freddo, quel lume oscuro che proviene dall’astro notturno.

Costei che mia benigna e ria fortuna,

e la mia vita e morte tene in mano,

per cui tanti suspiri spargo in vano,

è con iusta cagion chiamata Luna,

 

non sol perché nel mondo è sola et una

e ha divino il volto più che umano,

ma perché basta ad agghiacciar Vulcano,

quando tutte le fiamme inseme aduna.

 

Fu preso il suo candor da l’alto cielo,

ov’è la lattea via del paradiso,

non nota a la volgare e cieca gente.

 

Quanti col raggio tocca, muta in gelo,

ma ’l scintillare e fulgurar del viso

me, misero!, converte in fiamma ardente.

 

[Però, se uno ci pensa, per quanto impacciata sia la poesia, si trova intanto che la Luna è l’una; l’unica donna che abita la fantasia e il cuore del poeta; essa Luna-Una segna il destino: quella del cielo, influendo su tutti gli uomini; l’unica terrena sull’unico che l’ama, esaudendo o non esaudendo il suo desiderio.

La Luna è sotto il regno del freddo (analogia semantiche: bianco, ghiaccio). Vulcano rappresenta il contrario della luna, la passione ardente contro la fredda ragione, ma anche la tèchne contro la conoscenza contemplativa. A Vulcano, che opera nella fucina, appartiene come attributo il fuoco che, per trita metafora, è relazionato all’amore. Si può schematizzare:

                                       Luna (Artemide)                       Vulcano

                                                          divino                                   umano

                                                         ragione                                   amore

Il testo si dispone in direzione cristiana con un riferimento ora astronomico: la Via Lattea , forse per il biancore, è posta in relazione con Artemide; ma la tradizione devota vuole che la striscia bianca nel cielo sia stata prodotta da qualche eccesso latteo della Vergine e Madre: dunque appare chiara l’identificazione Maria-Artemide (Questo è possibile in età post-umanistica: si pensi però all’opinione che di Diana avevano i cacciatori di streghe...).

Questa via Lattea è di natura spirituale: essa conduce al paradiso.

Se ne conclude che lo sguardo della donna (il fulgurar dantesco del viso)/Diana/Maria, induce all’amore spirituale per la contemplazione, ma l’autore, gonfio della la­scivia di Vulcano, si lascia riempire piuttosto dal fuoco, riportandoci a una consunta tematica petrarchesca, quella dell’opposizione fra l’amore per la donna e l’amore per Dio].  

 

1.9.2 Maurice Scève (1501ca-1562ca)

Con Délie (oggetto di altissima virtù) la grande concezione del mito torna a essere quella che era stata nell’età classica.

Il canzoniere di Scève si situa in una tradizione complessa, notturna e lunatica potremmo dire: non è qui la sede di approfondire, basterà accennare che per una interpretazione plausibile delle sue dizaines non si può prescindere dall’alchimia e dalle altre scienze occulte, tanto di moda nel Cinquecento. È inutile ricordare che da esse derivano per molti aspetti le scienze moderne, o meglio la loro pretesa prometeica e luciferina di cambiare il mondo.

La conoscenza (come appare dalla CXXVI dizaine di Délie) deriva dal sonno: una volta che la terra è sepolta sotto materassi di silenzio, viene il sogno che realizza i desideri: infine, Délie è vicina. Come Endimione alla Luna: la donna amata è ancora la luna, ma qui il gioco delle corrispondenze si fa più intrigante: perché il pastorello, in fondo, non era cosciente di avere fra la braccia Selene; tutto avveniva mentre lui dormiva. Quello che sappiamo di questa storia, è il resoconto della sua esperienza, che può certo essere ingannevole. Ma per lui? per Endimione che ha avuto i favori della ritrosa Artemide non può esserci cosa più certa; cosi, nulla è più sicuro del sogno: nessuno può metterlo in dubbio, perché non si può in alcun modo verificarlo. Délie è la luna (uno dei luoghi più sacri ad Artemide è il santuario di Delo); ella è anche colei che slega (délie) Maurice dal mondo basso. È lei ad avviare sulla strada della conoscenza (CCCLXV), a mettere i suoi devoti al riparo dalla sofferenza e della tenebra, a sciogliere le nubi che separano dalla verità per far splendere il suo sereno.

Corpo e anima, concordia discorde. La problematicità dei loro rapporti, simboleggiati da quelli fra gli amanti (il corpo è Délie, perfetta apparizione carnale della bellezza; l’anima Maurice, un’anima-ombra, che segue la bellezza, ma senza sforzo, per dedizione piacevole e spontanea, per la sua haute excellence.

da «Délie»

XXII

Come Ecate tu mi farai errare

e vivo e morto cent’anni fra le Ombre:

come Diana in Cielo ritirare,

donde scendesti nel mortale ingombro:

come regnante sulle infernali ombre

accorcerai o allungherai mie pene.

     Ma come Luna infusa alle mia vene,

quella tu fosti, sei, sarai délie,

che Amore ha avvinto ai miei pensieri vani

forte, tanto che non la slega Morte.

 

XXXV

Già due volte la Luna ho visto nascente;

altre due volte piena di calare ha preso,

e due soli, che qui m’hanno trovato,

due volte di te han rinverdito il ricordo,

la cui forza è cresciuta nell’attesa;

il lungo tempo tanto ci separa,

che io e la vita non possiamo stare insieme.

    Perché morire in questa lunga assenza

- non senza tuttavia vivere in te - mi pare

servizio uguale al soffrire in tua presenza.

 

LIX

Tacere, o parlare sia concesso a ognuno

che libero arbitrio a sua volontà lega.

Ma se avviene che di tanti qualcuno

ti dica: Donna, o il tuo Amante s’oblia,

o della Luna finge il nome Delia

per dimostrarti come lei, mutevole,

lungi da te il nome vituperevole,

sia dato a chi un tal male ci procura.

     Io ti nascondo in quel nome lodevole,

poi che rischiari in me la notte oscura.

 

CVI

Che mi porti riposo attendo la notte,

ché notte conforta ogni aspra tristezza,

ma quando scompare quel sol che mi muove,

annega con lui la poca mia gioia.

     Perché quando ha fatto la sua corsa la Dèa

che dal più basso cielo rischiara la notte oscura,

tosto rinasce in me quell’altra Luna,

lucente là nel centro dove l’anima siede,

e, costringendomi alla solita pena,

mi fa esser la notte giorno doloroso.

 

CXXVI

All’imbrunire, a quell’ora di tenebra,

quando lento il Sonno la terra accheta,

sotto coltri opache seppellito,

viene a me un sogno e l’anima mi schiude,

e la riempie quindi di colei

che riveriva per i suoi modi regali;

     tanto ne è attratta che poi, senza timore,

sono convinto e certo che l’ho fra le braccia,

come Endimione fa con la sua Luna.

 

CCCLXV

Per chiarità potente Luna al pieno

rompe lo strato d’oscurità paurosa,

che della notte il raggelante orrore

e livido spavento in noi raddoppia:

quindi gli sviati trae fuor di paura,

ove li induce tenebra malfida.

     Così di quella, che mi regna in cuore,

il dolce sguardo ai mali miei sovrano

scioglie umida nube al mio dolore,

scortandomi al gioioso suo sereno.

 

CCCLXXVI

Donna, il Corpo tu sei, io sono l’ombra,

e in questo mio prolungato silenzio

muover mi fai, non com’ Ecate l’ombra

mediante grande e tediosa violenza,

ma col potere d’alta tua eccellenza,

movendomi al dolce aggiramento

d’ogni tuo fatto, più subitamente,

che si veda seguire il corpo l’ombra,

ben ch’inumanamente io senta i nostri

santi voleri insieme esser discordi.

 

CCCLXXXIII

Più cresce Luna, e i corni suoi rinforza,

più gran sollievo sente il febbricitante,

più modera, calando, la sua forza,

più lo debilita, il male suscitando.

     Ma tu, di tanto più tu vai eccitando

prima dell’ora questa mia febbre ardente,

quando cala per me la tua presenza

raddoppiando l’accesso in mille forme.

     E al vederti la faccia seminuda,

Da paziente tu in morto mi trasformi.  

 

   

1.9.3 Chiara Matraini (1514 - dopo il 1597)

Selene è scesa fra noi, sedotta dalle bellezze di Endimione, e ci ha lasciato nell’oscurità. È tempo ormai che torni nel suo cielo, a illuminare gli uomini.

L’allegoria è trasparente: il mondo (o forse solo Chiara) è preda della passione,

ha bisogno di un’illuminazione, di una guida per superarla. La Luna può fornire questa guida, quest’aiuto, a patto però che abbandoni essa stessa le propensioni mondane, che ritorni ad essere Artemide da Selene che era (che guidi i suoi cervi, le propria attività, la propria vita, frenandoli, tendendoli dentro il cammino della virtù).

Ma nemmeno la Luna può farlo in autonomia: ha bisogno di un aiuto esterno, di un Sole (dell’ispirazione divina) che la guidi. Qui Chiara limita l’autonomia del femminile: non è vero, come pensava il Cariteo e come appartiene, per dire, a tutta la tradizione cortese, che a guisa di Luna, la donna possa condurre l’uomo sulla strada del bene e della virtù; perché ciò possa avvenire, è necessaria in qualche modo un’istanza superiore, la divinità sentita come maschile.

Di passata, si può notare la specularità col Cariteo: l’opposizione Endimione/Sole è omologa a quella Una/Luna. Ciò costituisce l’affermazione della dignità femminile, dell’autonomia di tale condizione, che è uguale, specularmente uguale, a quella maschile. Capace di amare e di farsi amare, di dover scegliere fra virtù e passione, di poter indurre la scelta altrui tra virtù e passione.

Ritorna, alma del del, candida Luna,

al primo giro tuo lucente e bella,

e con l’usato albor tuo rinovella

il diadema d’argento ch’or s’imbruna.

 

Lasc’ir per terra all’ombra atra importuna

l’amato Endimion, cacciando quella

fera che più gli piace, e di tua stella

eterni raggi alla tua fronte aduna.

 

Volgi i begli occhi al tuo divino Sole,

proprio oggetto di te verace e degno,

ponendo a’ cervi tuoi veloci il freno.

 

Rompi con saldo et onorato sdegno

ogn’empia nebbia e vil ch’oscurar vuole

il tuo lucido ciel chiaro e sereno.

 

* * * * * *  

1.9.4 Laura Battiferri (1583-1589)

Quando nell’ocean l’altera fronte

inchina il sole e ‘l nostro mondo imbruna,

e dal più basso ciel la fredda luna

sormonta e fa d’argento ogni alto monte,

 

partesi il buon pastor dal chiaro fonte

e la sua greggia alla sua mandria aduna,

e ‘l stanco pellegrin raccoglie in una

le forze stanche al suo voler mal pronte;

 

et io che veggio avvicinar la notte

e volar l’ore e i giorni, gli anni e i lustri,

e già dal quinto indietro mi rivolgo,

 

il passo affretto, e prima che s’annotte,

lo stuol de’ pensier miei sparsi raccolgo

per fargli in cielo eternamente illustri.

 

In questa poesia troviamo un «fonte» a far l’ufficio del pozzo, ma gli elementi sono sempre gli stessi: acqua, luna... (a volte il pozzo può essere addirittura il mare...)

La luna, con allegoria che più tardi sarà assai fortunata, è accomunata al viaggiatore, a sua volta simbolo della vita.

Caratteristico è il discorso sull”immortalità, avvolta in una rete di relazioni complessa:

opposizione determinante: nostro mondo//cielo

            replicata da:    sole//luna

 

altre relazioni:

notte ---> morte (durata eterna, in cielo)

opposta a

sole ---> vita (transeunte, sulla terra)

 

luna ---> idea (creazione artistica) <---- pastore(gregge)

   ^      [collegato a poeta (pensieri)]              |

                                                           |                                

viaggio---> meta(eternità)      |

(vita)   |

                                           fonte [collegato ai libri]

 

Il tempo condiziona l’eternità: per portare alla meta le pecore occorre radunarle di giorno, per portare al cielo i pensieri occorre comporli durante la vita. Le relazioni di contiguità e opposizione sopra individuate si inseriscono in questa moralità generale.

Ne esce un’idea abbastanza tradizional, ossia che la morte è condizione per trascorrere all’eternità. Era già presente in Petrarca, avrà lunga storia, fino a Novalis, per esempio.  

 

1.9.5 Giordano Bruno (1548-1600)

Luna incostante, luna varia, quale

con corna or vote e talor piene svalli,

or l’orbe tuo bianco, or fosco risale,

or Bora e de’ Rifei monti le valli

 

fai lustre, or torni per le tue trite scale

a chiarir l’Austro e di Libia le spalli.

La luna mia, per mia continua pena,

mai sempre è ferma, ed è mai sempre piena.

 

È tale la mia stella,

che sempre mi si toglie e mai non rende,

che sempre tanto bruggia e tanto splende,

 

sempre tanto crudele e tanto bella;

questa mia nobil face

sempre sì mi martora, e sì mi piace.

 

La luna di Giordano è viva, in perenne movimento; si oppone a quella statica, tradizionale, affermazione di una luce razionale priva di movimento. Il Nolano preferisce l’incompiuto al compiuto, con un movimento che poi sarà di Galileo. Questa luna («luna mia») è l’intelletto in atto: desiderio eterno e immutabile di bellezza. Certo, la bellezza è eterna, ma l’uomo la vagheggia negli esseri del mondo: essa cambia di continuo, la luce cercata muta d’attimo in attimo, si dà e non si dà nel transeunte.

Giordano nasce sotto il segno della luna («è tale la sua stella»), ma questa luna «si toglie», scompare, si trasforma in assenza, in quella «luna nera» di cui a lungo si è favoleggiato, che si ritenne nel ‘600 di aver visto qualche volta, che corrisponde a un punto fittizio del cielo, una sorta di costellazione immaginaria legata, sul piano mitologico della tradizione kabbalistica, a Lilith. Costei è in realtà la prima donna: creata prima di Eva, allo stesso tempo di Adamo (realizzando quindi una «coppia perfetta» come Osiride/Iside o Febo/Artemide. Intorno al suo destino, si conoscono due tradizioni: secondo la prima, si sarebbe scontrata con Adamo per la supremazia, finendo tra i demoni; per la seconda, invece, i suoi favori sarebbero stati contesi fra Caino e Abele. Come finì la storia si sa. In ogni caso, fu la donna di Adamo: sorella/amante, poiché fu creata con lui, condividendone perciò il destino incestuoso; ma ne è anche, per la contiguità gemellare, un doppio, un’emanazione, il lato nascosto femminile, per cui al primo padre si addice anche il titolo di androgino.

Lilith sarà la nemica di Eva, l’istigatrice degli amori illegittimi, la perturbatrice dei letti coniugali. Abiterà il fondo del mare, dove dovrebbe trattenersi per evitare danni al mondo. L’astronomia la conosce, perché le assegna un ciclo (ciclo di Lilith) speculare rispetto a quello di Selene: Lilith è piena al novilunio, quando copre completamente Selene che scompare. Rappresenta un rove­sciamento totale dell’ordine naturale: la sua sessualità non risiede nel ventre, ma nel cervello!

Rappresenta l’odio per la famiglia, la maternità, ecc. Non puù integrarsi nella vita normale, deve stare nell’abisso. La luna nera, insomma, è l’ombra dell’inconscio, che divora neonati ed è a sua volta divorata dalla gelosia. Legata com’è alle nozioni di inattingibile, inaccessibile, alla presenza smisurata dell’assenza (e viceversa: l’assenza infinita della presenza, il trionfo del nulla), soffre per la lucida intensità con cui esperisce quest’assenza di esperienza. Giordano soffre di questa solitudine vertiginosa, per quel vuoto assoluto dalla densità infinita - Lilith somiglia in questo ai buchi neri del cosmologo. L’essere marchiato dalla luna nera preferisce rinunciare al mondo, anche a prezzo della distruzione propria o altrui. Egli sa però trasformare il veleno in farmaco: la Luna nera indica - è - la Porta stretta che conduce all’Assoluto. La luna nera sotto cui è nato Bruno (già il nome è significativo) è il lato nascosto, tenebroso, nefasto della luna; essa è come il Liocorno, che strazia o feconda divinamente, a seconda chel’essere sia puro o impuro da passioni. Indica una strada pericolosa che conduce in modo violento al centro luminoso dell’essere e dell’ Unità.  

 

1.9.6 Celio Magno (1536-1602)

 

Alla luna

 

Perché con sì sottile acuto raggio,

Cintia, a spiar per l’ombra folta passi

dove Filli mia bella or meco stassi

sotto questo frondoso antico faggio?

 

Forse, cercato il tuo pastor, ch’oltraggio

ti fa, tardo ver te movendo i passi,

qui gli occhi ancor, per ritrovarlo, abbassi,

e sospettosa in ciel fermi il viaggio?

 

Vano è ‘l timor: se pur timor ti prese

in sul primo scoprir de’ furti miei,

me credendo colui che ‘l cor t’accese.

 

Ché per Endimion fuor del mio laccio

Filli non usciria; ned io torrei

gioir, Diana, a te più tosto in braccio.

 

Il gioco classicista si è qui fatto mera eleganza, chiacchiera da salotto all’aperto. Incrocio chiastico, fantasia di scambio, fra la coppia reale (poeta/Filli) e la coppia mitologia (Selene/Endimione). Progetto subito negato: certe cose non si fanno sotto il frondoso faggio virgiliano!

C’è tutto un mondo di civetteria, di bronci, di mossette d’amante, di ritrosia esibita come marca del consenso, di desideri appena frustrati, di piccole gelosie che preannunciano atmosfere rococò, leziosaggini arcadiche. Passatempo malizioso, come maliziosa è la forma chiastica usata dal poeta; ma si tratta di malizia superficiale assai, che non arriva in nessuna profondità, non ci insegna niente di niente su niente. Par di vederla, Selene, sorridere in cielo di questo poeta che vorrebbe essere galante e si ritrova ad essere invero un po’ volgare e un po’ insultante.  

 

* * * * *

1.9.7 Torquato Tasso (1544-1595)

Torquato Tasso legge nella luna tante cose: ma certo anticipa una sensibilità romanticheggiante, quando presenta la luce lunare come più luminosa, in fondo, più evocatrice di verità rispetto a quella diurna.

Vi legge ad esempio l’evocazione della bellezza, rovesciandone peraltro la meccanica: non è più la bellezza terrena che riflette il cristallo lunare, bensì i mari della luna, politi per l’occasione come limpidi specchi, ad ornarsi delle bellezze terrene. A loro volta, queste bellezze sono riflesso della vera terrena reale ideale sola luna, la Donna , centro di questa vita. Si tratta di uno spostamento radicale, quanto perplesso.

Nei testi selenici di Torquato leggiamo la bellezza:

Loda il Poggio e i luoghi vicini e la Granduchessa che v’abitava ne’ maggiori caldi de la state.

Ballata VI

 

Tu, bianca e vaga Luna

c’hai tanti specchi quanti sono i mari,

mira questo candor ch’è senza pari.

 

A lei mena i tuoi balli, a lei distilla

le tue dolci rugiade:

spècchiati in lei con amoroso affetto.

E tu, Venere, allor con lei scintilla

che ‘1 sole inchina e cade:

tu, Giove e Marte con benigno aspetto,

lumi sereni e chiari,

non siate a lei de’ vostri doni avari.

 

Lascia perplessi, questa nuova mitologia: lo stesso Torquato è poco convinto. Pone una domanda che poi sarà di Leopardi: ma la luna cos’è? che serve? qual è il senso del Tutto, che gira, volenti o nolenti, intorno all’astro?

Questo misterso viene presentato in un madrigale completamente interrogativo, il cui pretesto è la partenza della donna amata («vita de la mia vita»), dubitativa («forse») peraltro anch’essa, evocata nell’ultimo verso; la luna occupa com’è ovvio il luogo centrale, trasformata in fontana di lagrime, serbatoio di sofferenze, di incertezze, di angoscia. Forse è tutto un’illusione, forse il mondo intorno a noi non c’è proprio, è solo fantasia dovuta all’incertezza che regola la nostra vita. Mistero, non colmato nemmeno dalla bianca luce notturna dispensatrice di bellezza.

Qual rugiada o quel pianto,

quai lacrime eran quelle

che sparger vidi dal notturno manto

e dal candido volto de le stelle?

e perché seminò la bianca luna

di cristalline stille un puro nembo

a l’erba fresca in grembo?

perché ne l’aria bruna

s’udian, quasi dolendo, intorno intorno

gir l’aure insino al giorno?

fur segni forse de la tua partita,

vita de la mia vita?

Mistero è quasi paura: per qui si torna alla tradizione, ad Artemide che se la prende con povero Atteone, alla feroce cacciatrice di fiere e di uomini.

Il sonetto seguente è un inno all’astro notturno, assai tradizionale in fondo per gli attributi via via messi in luce: la bianchezza, l’amore per Endimione, lo splendore maggiore (per via del contrasto col cielo nero) di quello del sole, la naturar di suprema regolatrice del tempo, ecc. Da dove nasce la paura?

C’è in Torquato un atteggiamento, tipico, di dubbio: veder nuda la dea, fosse solo in sogno, rende degni della punizione atroce. Artemide punisce anche i falli compiuti involontariamente, inconsapevolmente persino. Proprio come capita con le verità di fede, che non si sa mai dove davvero abitino; ma questo è altro discorso.

Parmi ne’ sogni di veder Dïana

che mi minacci: io non la vidi in fonte,

né mi spruzzò con l’acque sue la fronte

né posi in vergin sua la man profana.

 

O dea, non fosti tu da bianca lana

vinta, né trasse te da l’orizzonte

vago pastor, perch’altri orni e racconte

sue fole e fama illustri incerta e vana.

 

Ne le serene notti emula bella

splendi del sol, ma più di lui cortese

che senza offesa vagheggiar ti lasci:

 

l’ore e ‘1 ciel con lui parti e reggi il mese:

hai l’Iri e la corona e le quadrella

e l’arco, e i tuoi destrier d’ambrosia pasci.

 

Nemmeno il tempo della natura, che ritorna sempre su se stesso, apparentemente uguale, fornisce qualche certezza. Noi poveri uomini siamo condannati a percepire il mondo in maniera soggettiva: basta un amore difficile a rovesciare la nostra percezione del mondo. Capita così che facciamo di notte giorno, di giorno notte, e ben poco la luna potrà fare per insegnarci la retta fede. La funzione della luna nel sottolineare i cicli naturali è sottolineata dal madrigale seguente:

Porti la notte il sole

e la candida luna il giorno apporte,

e ‘1 nascer lutto, e gran piacer la morte:

porti la state il gelo

e dolci frutti il verno,

e il ciel diventi a noi l’orrido inferno,

anzi l’inferno il cielo:

rompa sue leggi la natura e ‘1 fato

poi che le rompe Amore,

e premio è crudeltà d’un fedel core

e pietà d’uno ingrato.

 

1.10 La luna romantica

Queste ultime considerazioni intorno a Tasso ci portano vicino alla nuova sensibilità, che si diffonde nell’Europa di fine Settecento, primi Ottocento: quella romantica.

I chiari di luna si sprecano, in quest’epoca: i più famosi sono quelli musicali (basti ricordare la grande sonata di Beethoven), ma non mancano certo nella pittura (Friedrich) nè in letteratura. Anzi, il tema della notte di luna, in cui spesso si incontrano gli amanti, diventa persino luogo comune.  

 

1.10.1 Victor Hugo

Un grande catalogatore di questa sensibilità, forse il più grande, Victor Hugo, lo tratta nelle Orientales, aggiungendo l’elemento liquido che ci riporta all’inizio della nostra discussione. Il mare in cui si svolge la visione è quello stesso di Talete, in fondo, e le suggestioni vanno viste nella stessa direzione.

Quasi a continuare direttamente Tasso, riprende il tema delle interrogazioni, cui però il poeta dà una sua risposta, secondo il seguente schema:

                                     tema

                                        domande

                                        risposte

                                     tema

Ci sono presenze inquietanti: una «sultana» che è il soggetto delle domande; una finestra che, finalmente, s’è aperta, a permettere lo sguardo sul mondo lunare della notte; una chitarra - un laud? - che, liberandosi dalla sua proprietaria, suona da sola, specie di arpa eolica; una nave che viene da Kos, isola di vino, di vesti, col tempio di Asclepio. Un clima da Mille e una notte, corretto da una sensibilità che vorrebbe essere medievale, che fantastica il medioevo. Su tutto, il rapporto fra la luce e l’acqua, che rinvia a quello fra Diana e le fonti.

C’è musica - melodramma! - al chiaro di luna. Arpeggi, forse, come nella grande sonata di Beethoven. Il mistero è quasi da romanzo poliziesco, e contra­sta con la luce immacolata dell’astro: delitti sotto la luna. Mistero vieppiù, perché tutto si svolge in questo strano Oriente al di qua della Grecia: sull’Egeo le lune sono più grandi, le onde più sonore, le donne più belle, le navi tagliano le acque con sciabordo più intenso, i cormorani pescano più a fondo...

Che ci sarà dentro quei sacchi, che cadono sinistri nel mare, contrastando con la luna serena che gioca sopra i flutti?

Non lo sapremo, se non all’ingrosso, perché si muovono, hanno forme umane... Forse...

Victor Hugo

Chiaro di luna

 

                            Per amica silentia lunae.

                                               VIRGILIO

 

La luna era serena e giocava sull’acqua.

Libera infine e aperta la finestra alla brezza,

e la sultana osserva: il mare che si frange

laggiù e gli scogli neri ricamati d’argento.

 

La chitarra vibrando le scivola di mano,

ascolta l’eco sorda d’un opaco rumore:

forse un vascello turco, coi suoi tartari remi

dalle spiagge di Kos si muove ai lidi greci?

 

O sono i cormorani coi loro tuffi lenti

e con le ali imperlate dall’acqua appena mossa?

O di un ginn lassù soffia la smorta voce

e pietre dalla torre fa cadere nel mare?

 

Chi vicino al serraglio osa turbare l’acqua?

Né il cormorano nero dall’onda carezzato;

né pietre delle mura, nè il suono cadenzato

di un vascello che arranca sull’acqua con i remi.

 

Sono sacchi pesanti da cui viene un lamento.

Si vedrebbe scrutando l’acqua che li sospinge

come una forma umana tentare un movimento...

La luna era serena e giocava sull’acqua.

Settembre 1828

 

1.10.2 Charles Baudelaire

Le lune contemplate finora guardavano paesaggi naturali, in cui l’uomo si affacciava col timore di non essere a casa propria, in un luogo infido, tanto meraviglioso quanto ingannevole: la radura della foresta, la dolce armonia del giardino, il deserto, il mare tranquillo (la natura illuminata da Selene è sempre calma, appena agitata talvolta dal vento: le nuvole, indizio del maltempo, la nascondono), la tiepida notte di montagna abitata da Endimione dormiente...

Charles Baudelaire propone qualcosa di diverso: la luna, come molte altre presenze evocatrici e simboliche della sua poesia, si trasferisce a considerare gravemente i luoghi costruito ed abitati dall’uomo: le città, le case comode e accoglienti del XIX secolo, della raffinata Parigi che di quel tempo fu la capitale. Forse per questo è triste. È ancora più femminile del solito, povera e isolata, ancora più incapace di farsi amare, ancora più desiderosa d’amore. Una luna inedita, che piange, infine. Una lacrima sola, la stessa che solcherà la gota della maschera più lunare, il parigino Pierrot.

Tristezze della luna

La luna sogna, stasera, con più pigra mollezza;

come una bella che, su pile di cuscini,

con mano distratta e leggera accarezza

prima d’addormentarsi la curva dei suoi seni.

 

Sulla serica groppa di morbide valanghe,

s’abbandona sfinita ad un lungo deliquio,

mentre gli occhi le vagano sulle visioni bianche

come fioriture salienti nel turchino.

 

Quando su questo globo, nel suo languore ozioso,

lascia a volte in segreto scivolare una lacrima,

un poeta pietoso, nemico del sonno, raccoglie

 

nel cavo della mano quella lacrima pallida,

iridata come un frammento d’opale, e la ripone

nel suo cuore, lontano dagli sguardi del sole.

 

(trad. di Luciana Frezza)

 

1.10.3 Gérard de Nerval

Anche nelle città, il mistero regna sovrano, e la Luna ispira riflessioni sempre più ermetiche, impenetrabili anche a colui che le concepisce, che per darsene conto inventa le spiegazioni più lunatiche e fantasiose, ricorrendo all’armamentario simbolico approntato dai millenni passati, negando persino che questo tempo sia passato, tentando di gettare un folle ponte fra tutti i tempi, di ri­trovare dappertutto i medesimi segni, la medesima sapienza. Chi, se non Gérard de Nerval, può, alla metà del secolo scorso, esser detto lunatico? Tutta la sua opera è illuminata dalla luna, pervasa dalla luce tagliente e insieme ingannevole della notte. Fra le sue Chimères, breve straordinario e difficilissimo ciclo di sonetti, una è dedicata direttamente all’astro notturno, incarnato qui da Artemide, nonché da suoi equivalenti simbolici: procedimento questo tipico del grande visionario parigino.

Artemis

 

Torna la Tredicesima... Ed è ancora la prima;

ed è sempre la Sola - il solo istante forse:

poiché tu sei Regina, tu! ultima o prima?

e sei tu Re, tu, unico o estremo amante?...

 

Amate chi vi amò dalla culla al sepolcro;

colei che solo amai teneramente mi ama:

è la Morte - o la Morta... Oh delizia! Oh tormento!

La rosa ch’ella regge è la Rosa Malvacea.

 

Santa napoletana dalle mani di fuoco,

rosa di cuor violaceo, fiore di Santa Gùdula:

trovasti la tua Croce nel deserto dei Cieli?

 

Rose bianche, cadete! voi insultate gli Dèi,

crollate, fantasmi bianchi, dal vostro cielo in fiamme:

- la santa degli abissi ai miei occhi è più santa!

 

(trad. di Diana Grange Fiori)

Dare ragione di questo testo, che pure risuona di un fascino indubbio, è impresa disperata: il suo mistero è il mistero stesso della luna.

Comunque: La «tredicesima» che ritorna è l’ora: finito il giro del quadrante, l’orologio torna a segnare lo stesso tempo; è il mito dell’eterno ritorno, del tempo immobile. È la sola ora, il solo momento possibile; ma questo momento è incarnato dalla donna amata, la Sola (l’Una) per definizione, nella tradizione dei poeti. Costei è la Regina : rinvia a un mondo esoterico e alchemico, come la Regina di Saba, l’amante misteriosa di Salomone, il sapiente sfortunato dell’Antico Testamento. Però costei è Regina poiché è legata a un Re - l’Amata legata all’Amante: quel tipo di coppia esoterica e mitologica che troviamo mille volte nelle mitiche storie e già abbiamo indicato in Iside-Osiride, Artemide-Febo... fino all’Ermafrodita degli alchimisti che riassume tutte queste idee in un essere unico. È una luna-amata: anzi, è riassuntiva di tutte le donne amate dal poeta, ma è una luna scomparsa, perduta, in novilunio: è Ecate, è morte... Una morte che forse è a sua volta morta, contraddittoria per essere insieme delizia e tormento.

Qui il discorso ha una svolta improvvisa: la Tredicesima diventa Santa, il tempo si sposta, si identifica con quello della liturgia. La santa si allarga in una pluralità di figure: santa Fiomena (colei che è amata: ancora una volta!) morta come san Sebastiano, per una aver accettato l’amore di Diocleziano. È lei a tenere in mano la Rosa malvacea (Rose tremière) dal sottile colore violetto. Lo stesso fiore che spetta a santa Gudula, patrona di Bruxelles; ma la rosa bianca è invece emblema di santa Rosalia ardente di amore mistico, patrona di Palermo, ma venerata a Napoli come nemica dei cataclismi. Queste sante, immagine cristiana di Artemide, vagano, come la dea cacciatrice, nei deserti del cielo: perché cercano la Croce. Ma il poeta ci abbandona con un ultimo rovesciamento: anch’esse hanno il loro doppio, come Artemide in Ecate, e il loro aspetto infero è forse più esaltante di quello celeste, più misticamente santo. Per questo dovranno cadere, come Lucifero, dal cielo, vivificare l’abisso della loro presenza, come fece a suo tempo Persefone/Ecate.

Questa confusione di cielo e inferno è a parer mio uno dei tratti più compiutamente lunatici di Nerval, e anche di tutta la nostra civiltà.  

 

1.11 Finalino del chiaro di luna

Ma è tempo di chiudere queste divagazioni, perché la luna non resta immobile nel cielo: ci dona o ci nega la sua luce volubile. Lasciamo la parola, per concludere, a Saffo, che ci aveva introdotto alla luce di Selene. Se, perduta la luce lunare e perduta la speranza, l’uomo si rivela per un selvaggio animale, la colpa non sarà certo nostra. Questa è la natura, siamo fatti così, viluppi di desiderio incapaci di andare oltre noi stessi, se un astro non ci illumina.

Tramontata è la luna

e le Pleiadi a mezzo della notte;

anche giovinezza già dilegua,

e ora nel mio letto resto sola.

 

Scuote l’anima mia Eros,

come vento sul monte

che irrompe entro le querce;

e scioglie le membra e le agita,

dolce amara indomabile belva.

 

Ma a me non ape, non miele;

e soffro, e desidero.