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Pleniluni e quarti di luna

 

QUARTI DI LUNA

Divagazioni dal fondo del pozzo

(gennaio-febbraio 1997)

 

3. Il poeta della luna: Giacomo Leopardi

3.1. Alla luna

3.2. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

3.3 Il tramonto della luna

3.4 Frammento: Odi Melisso, i’ vo’ contarti un sogno

3.4.1 Il tema delle stelle cadenti

3.4.2 Il pericolo del desiderio: paura della felicità

3.4.3 Il tema della dialettica vuoto/pieno e dell’essere del nulla

3.4.4 Il tema di Lilith

Di tutti i poeti che conosco, Leopardi è il più affezionato alla luna.

Si tratta, nella sua opera, di una specificità della poesia; l’interesse per l’astro è evidente anche in altri generi praticati dal grande recanatese, (ne è un esempio l’operetta morale che presenta un Dialogo della terra e della luna) ma nella poesia assume una funzione diversa, come si vedrà. Questo è giustificato dalla sua convinzione che la poesia è uno specifico mezzo di conoscenza, diverso dagli altri; dunque, gli oggetti che essa assume forniscono diverse forme di acquisizione intellettuale. Per fare un esempio, il cavallo della poesia epica è diverso da quello lirico (la lirica è un po’ il modello, la vera poesia, in Leopardi), e diversi ancora sono i cavalli del fisiologo, del maniscalco, dell’amazzone e del macellaio, o meglio della loro conoscenza specifica.

Qui ci occuperemo, perciò, della luna in poesia, dunque nei Canti anzi, in alcuni di essi, poiché la materia sarebbe altrimenti enorme. Infatti, su una quarantina di composizioni del canzoniere, l’astro notturno viene citato circa 20 volte, in 14 componimenti, con pesi e centralità ovviamente vari: Bruto minore, Alla primavera, Inno ai patriarchi, Ultimo canto di Saffo, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita solitaria, Al conte Carlo Pepoli, Il risorgimento, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, Il sabato del villaggio, Il tramonto della luna, e i frammenti dall’egloga «Odi Melisso, io vo contarti un sogno»  e dalla cantica L’appressamento della morte.

L’astro notturno appare essere il tema lirico più ripetuto del canzoniere; dunque assume un valore simbolico particolare. Si possono per il momento fare le seguenti considerazioni preliminari, riassuntive di una lettura di tutti i Canti

1) La luna è alterità, rappresenta ciò che è diverso dall’uomo, per quanto possa essere simile a lui, cioè essere soggetta alle stesse leggi che regolano la nostra vita. La luna è un simbolo della Natura, alla quale l’uomo insieme appartiene e non appartiene.

2) La luna rappresenta un’alterità speciale, quella del femminile rispetto al maschile. Leopardi riprende qui un tema classico (si ricordi il sonetto del Cariteo, oppure anche Maurice Scève, per quanto l’opera di questo poeta sia stata presumibilmente ignota a Giacomo). Si potrebbe trovare, per esempio leggendo Aspasia, un cammino nei riguardi della donna identico a quello che copre un po’ tutta l’evoluzione poetica leopardiana sul tema della luna=natura.

3) La luna è una sorta di specchio dell’uomo, in cui esso si guarda riflettendosi. questa riflessione è riflessione su di sé, un guardare rovesciato, verso se stessi, un avvio di autocoscienza; l’astro è perciò simbolo di questo inizio.

4) La luna è un’immagine del deserto, che, a sua volta, sta per il «solido nulla» che è la realtà ultima dell’universo e del tempo. È forse il nucleo più profondo della luna leopardiana, perché a questa «verità» si attinge solo per via poetica (cfr. il Cantico dei Gallo Silvestre o il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, e anche molti passi dello Zibaldone).

Emanuele Severino dice che Leopardi è stato il primo occidentale moderno a tornare alle origini, a prima di Eschilo.

Una delle cose grandi e terribili che apparivano agli antichi era certo il cielo stellato, il gran padiglione etereo coi suoi infiniti luminari e sopra di essi il grande luminare notturno. Nella poesia di Giacomo ritroviamo quest’ancestrale stupore, questa volontà di cercare lassù una qualche ragione di quaggiù.

Ma Leopardi ha conosciuto anche la stagione della scienza e della tecnica, il suo non è un tornare indietro, è un andare oltre, un superamento. Il suo stupore ha conosciuto la svolta galileiana, questo stupore uguale e diverso che ha posto come ipotesi ineludibile l’eguaglianza, di fronte alle leggi fisiche, di tutti gli oggetti dell’universo. Documento di questo è il Dialogo della terra e della luna: ahimè, la legge che regola l’universo è la legge del dolore e della sofferenza. È questa la scoperta di Leopardi, ciò che sapevano gli antichi e che la tecnica può attenuare ma non eliminare.

Tutto questo appare anche di giorno: la consapevolezza scientifica è, forse soprattutto, solare. Proprio per superarla occorre la silenziosa luce della luna. Con la notte torna un’altra inquietudine: non vedo chiaro fuori di me, per cui guardo dentro, mi rispecchio sull’astro notturno, e trovo appunto questa legge di sofferenza. (Detto in breve: l’uomo è una macchina desiderante, capace di desiderare l’infinito; ma l’infinito non c’è nell’universo, né l’uomo è infinito per realizzare il suo desiderio; questa incapacità ci fa soffrire).

La luna è perciò l’unico pallido lume, intermittente, che appare e scompare, generoso all’uomo nel mostrargli una strada ancestrale: quella della domanda profonda, originaria, incomprensibile, eppure necessaria, che chiede con urgen­za una risposta impossibile: perché?

 

3.1. Alla luna

Il canto appartiene al culmine della produzione giovanile; pare sia del 1819, press’a poco coevo a L'infinito.

La luna qui rappresenta la continuità della natura: dopo un anno quest’ultima torna eguale. Perché?

Domanda cui non si può rispondere, domanda che crea dolore con il suo stesso porsi. Un anno fa, la luna appariva al poeta come piangente: era lo specchio, il riflesso della sua anima, allora sofferente. Il ricordo tuttavia è dolce, anche se è ricordo di un dolore; dunque la luna porta realmente all’uomo sollievo e dolcezza. Questa dolcezza è l’illusione, tipica del giovane, che gli permette di sop­portare l’aspettativa della vita. I versi (14-15) in cui appare questa considerazione sono un’aggiunta del Leopardi maturo, che introduce un argomento lunatico, che gli è spesso presente, cioè l’importanza degli anniversari («or volge l’anno»): è la speranza/illusione che tutto ritorni uguale a se stesso. Cfr. ad es. Pensieri, XIII:

Ho notato, interrogando in tal proposito parecchi, che gli uomini sensibili, ed usati alla solitudine, e a conversare internamente, sogliono essere studiosissimi degli anniversari, e vivere, per cosi dire, di rimembranze di tal genere, sempre ricordando, e dicendo fra se: In un giorno dell’anno come il presente mi accadde questa e questa cosa.

La luna, dunque, suggerisce, e questa opinione è tipica di Leopardi, l’approfondimento della vita interiore piuttosto che l’esperienza verso l’esterno, nella creazione di quello che si può considerare il paradigma dell’infinito. Siamo, dunque, ancora una volta, alla luna=specchio.

Il tema centrale è l’identità luna=illusione, luce=speranza, con in più la proiezione speculare: ciò che si proietta sulla luna e, proprio secondo l’insegnamento di Ariosto, quello che sulla terra abbiamo perduto, la felicità.

O graziosa luna, io mi rammento

che, or volge l’anno, sovra questo colle

io venia pien d’angoscia a rimirarti

e tu pendevi allor su quella selva

siccome or fai, che tutta la rischiari.

Ma nebuloso e tremulo dal pianto

che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci

il tuo volto apparia, che travagliosa

era mia vita: ed è, nè cangia stile,

o mia diletta luna. E pur mi giova

la ricordanza, e il noverar l’etate

del mio dolore. Oh come grato occorre

nel tempo giovanil, quando ancor lungo

la speme e breve ha la memoria il corso,

il rimembrar de le passate cose,

ancor che triste, e che l’affanno duri!  

 

3.2. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

Leopardi lesse nel 1828 un numero del Journal des Savants in cui si riportava un’osservazione dalle memorie di viaggio del barone di Meyendorff relative ai costumi dei pastori nomadi della Kirghisia. Il poeta ne fu colpito al punto da riportarla nello Zibaldone: «Parecchi di loro passano la notte seduti su una pietra a guardare la luna, e a improvvisare parole tristissime su arie musicali altrettanto tristi». Vi era nell’epoca una moda esotica e primitivistica, originata almeno in parte dalla volgarizzazione del pensiero rousseauiano, diffusa un po’ in tutta Europa, che certo influenzò anche Leopardi. Di qui nacque il Canto notturno.

Uno di questi pastori, immagina il poeta, si lamenta della condizione umana, prima con la luna, poi con le sue pecore. Con questo pastore il poeta in gran parte si identifica, anche se non mancano passi in cui egli sembra distan­ziarsi dal suo personaggio. Il luogo in cui il componimento è ambientato è il deserto, simbolo dell’insensatezza e della vuotezza della vita umana.

La poesia inizia con un’apostrofe alla luna, una sequenza di domande che non lasciano risposta possibile, se non la constatazione di una certa somiglianza fra

la vita del pastore e quella dell’astro. La figura del pastore, solitario nella distesa infinita e vuota del deserto, che canta alla luna alta nel cielo, delinea un potente paesaggio lirico di chiara origine romantica.

Cosa fai, luna, lassù nel cielo? dimmi tu, silenziosa (nel senso che non parla agli uomini) lassù nel cielo? Ti alzi, di sera, e segui la tua strada, che passa sopra i deserti; quindi tramonti. Non sei ancora sazia (paga) di percorrere, sempre allo stesso modo, i sentieri eterni del cielo (sempiterm calli)? Non ti senti an­cora presa dalla noia (a schivo), desideri ancora osservare la nostra terra (valli, reminiscenza, forse, della biblica valle di lacrime)?

L’alternarsi delle domande del pastore intorno al senso della propria vita e di quella degli astri conferisce alla poesia un respiro «cosmico» (alcuni critici definiranno appunto pessimismo cosmico questa fase del pensiero leopardiano). Queste domande resteranno peraltro senza risposta, come suggerisce già l’aggettivo silenziosa attribuito alla luna fin dal secondo verso; altrettanto anticipato è il movimento pessimista del canto, derivante dall’assenza di speranza attribuita al pastore.

La seconda strofa è occupata da una vasta similitudine per descrivere la vita umana, che si sviluppa in una sorta di vera e propria allegoria, svolta con grande virtuosismo sintattico, in un periodo ricco di proposizioni coordinate, che si snoda per sedici versi. Continua l’apostrote nei riguardi della luna, detta ora vergine; l’epiteto si spiega da un lato con l’identificazione mitologica fra la luna e la dèa Artemide (Selene), che viveva appunto rifiutando i rapporti amorosi; d’altro canto, proprio come lei, la luna rifiuta ogni rappogto con gli uomini, in una situazione di totale incomunicabilità, che verrà sviluppata più avanti; inoltre, l’aggettivo vergine suggerisce, per affinità simbolica, un’immagine di candore e purezza luminosa, attribuibile all’astro.

Comincia una meditazione filosofica più stringente, una descrizione della vita umana non più con gli strumenti retorici della poesia; ora la forma tende a un andamento «prosastico», meno legato ad effetti retorici, in cui il discorso del “pastore” coincide con le opinioni del poeta.

L’uomo nasce nella sofferenza, al momento della sua venuta al mondo rischiano di morire sia lui che la madre. La sua prima reazione all’essere al mondo è di intenso dolore (pena e tormento), tant’è vero che piange, e, fin dal momento della nascita, i genitori cominciano a consolarlo della pena che è l’essere al mondo. Man mano che cresce, tutt’e due i genitori lo aiutano, e continuamente si studiano di consolarlo del suo essere uomo; non c’è un compito più gradito fra quelli che svolgono i genitori (parenti, latin.).

Continua la riflessione filosofica, che si innalza ora da una prospettiva sogget­tiva a una universale, a comprendere il destino di tutto il cosmo e l’interrogazione sul senso di esso: a che serve? e, insieme, a che serve la mia vita?

Si tratta di una serie di domande che passano, poco per volta, dall’interrogazione sul senso di fatti singoli a quella radicale sul senso dell’universo; a nessuno di questi enigmi il pastore sa dare una risposta. Costui, che è un primitivo, crede che esista un mondo in cui la conoscenza delle cause prime e delle ragioni ultime davvero esista, che i corpi celesti/divinità sappiano il senso del tutto. Per Leopardi, invece, una risposta c’è ed è raggiungibile dall’uomo, chiara: il segreto del mondo e della natura non sarà mai chiarito, non sapremo mai davvero perché.

Emerge un tema che sarà poi sviluppato soprattutto nella Ginestra: quello della solidarietà, del gruppo di uomini che affrontano insieme la natura per affermare la vita (l’amante compagnia).

Tornano alcuni elementi che già s’erano visti ne L’infinito, e soprattutto l’insistenza su questo stesso vocabolo e su suoi sinonimi o analoghi (immenso, innumerabile, smisurata...). Si tratta qui di un infinito cattivo, nel quale non si “naufraga” con qualche gioia, ma di cui si intende il potenziale oppressivo di sofferenza.

Ora l’interlocutore cambia: il pastore si rivolge alle sue pecore. Il nuovo tema è quello della noia, ultima sofferenza dell’uomo, che resta anche quando gli altri dolori vengono meno.

Il canto si conclude con una breve strofa, quasi come un congedo di canzone. La prima parte riporta una riflessione attribuibile al pastore, che parla ancora alle pecore interlocutrici del canto: forse, se avessi le ali e potessi volare sopra le nubi, e contare (noverar:  imprestito petrarchesco, «Annoverar le stelle ad una ad una», CXXVII, 85) le stelle ad una ad una, o se potessi vagare di montagna in montagna come fa il tuono, potrei essere pìu felice, o dolce mia greggia, po­trei essere più felice, luna splendente di bianca luce (candida: anche nel senso morale di chi dice il vero, poiché, ironicamente, la luna è muta, e non vi è nulla da dire).

Già il forse iniziale mostra però che al pastore si sostituisce Leopardi, il quale ha un’altra opinione, anche questa espressa in via dubitativa, ma certamente più probabile: forse il mio pensiero sbaglia, è lontano (erra) dalla verità se considera la condizione degli altri esseri del mondo, ritenendola felice; forse, in qualsiasi forma, in qualsiasi situazione, in una tana (covile, rifugio di animali) come in una culla (cuna, letto per bambini), il giorno della nascita è funesto, perché porta in sé il seme della sofferenza e della morte.

Che fai tu luna, in ciel? dimmi, che fai,

silenziosa luna?

Borgi la sera, e vai,

contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

la vita del pastore.

Sorge sul primo albore;

move la greggia oltre pel campo, e vede

greggi, fontane ed erbe;

pci stanco si riposa in su la sera;

altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi ove tende

questo vagar mio breve,

il tuo corso immortale?

 

Vecchierel bianco, infermo,

mezzo vestito e scalzo,

con gravassimo fascio in su le spalle,

per montagna e per valle,

per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

al vento, alla tempesta, e quando avvampa

l’ora, e quando poi gela,

corre via, corre, anela,

varca torrenti e stagni,

cade, risorge, e più e più s’affretta,

senza posa o ristoro,

lacero, sanguinoso; infin ch’arriva

colà dove la via

e dove il tanto affaticar fu volto:

abisso orrido, immenso,

ov’ei precipitando, il tutto obblia.

Vergine luna, tale

è la vita mortale.

 

Nasce l’uomo a fatica,

ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

per prima cosa; e in sul principio stesso

la madre e il genitore

il prende a consolar dell’esser nato.

Poi che crescendo viene,

l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre

con atti e con parole

studiasi fargli core,

e consolarlo dell’umano stato:

altro ufficio più grato

non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,

perché reggere in vita

chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

è lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

e forse del mio dir poco ti cale.

 

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

che sì pensosa sei, tu forse intendi,

questo viver terreno,

il patir nostro, il sospirar, che sia;

che sia questo morir, questo supremo

scolorar del sembiante,

e perir dalla terra, e venir meno

ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi

il perché delle cose, e vedi il frutto

del mattin, della sera,

del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

rida la primavera,

a chi giovi l’ardore, e che procacci

il verno co’ suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

che son celate al semplice pastore.

Spesso quand’io ti miro

star così muta in sul deserto piano,

che, in suo giro lontano, al ciel confina;

ovver con la mia greggia

seguirmi viaggiando a mano a mano;

e quando miro in cielo arder le stelle;

dico fra me pensando:

a che tante facelle?

che fa l’aria infinita, e quel profondo

infinito seren? che vuol dir questa

solitudine immensa? ed io che sono?

Così meco ragiono: e della stanza

smisurata e superba,

e dell’innumerabile famiglia;

poi di tanto adoprar, di tanti moti

d’ogni celeste, d’ogni terrena cosa,

girando senza posa,

per tornar sempre là donde son mosse;

uso alcuno, alcun frutto

indovinar non so. Ma tu per certo,

giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

che degli eterni giri,

che dell’esser mio frale,

qualche bene o contento

avrà fors’altri; a me la vita è male.

 

O greggia mia che posi o te beata,

che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d’affanno

quasi libera vai;

ch’ogni stento, ogni danno,

ogni estremo timor subito scordi;

ma più perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,

tu se’ queta e contenta;

e gran parte dell’anno

senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,

e un fastidio m’ingombra

la mente, ed uno spron quasi mi punge

che, sedendo, più che mai son lunge

da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

e non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

o greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

dimmi: perché giacendo

a bell’agio, ozioso,

s’appaga ogni animale;

me, s’io giacclo in riposo, il tedio assale?

 

Forse s’avess’io l’ale

da volar su le nubi,

e noverar le stelle ad una ad una,

o come il tuono errar di giogo in giogo,

più felice sarei, dolce mia greggia,

più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:

forse in qual forma, in quale

stato che sia, dentro covile o cuna,

è funesto a chi nasce il dì natale.

 

3.3. Il tramonto della luna

Il canto, presumibilmente l’ultimo composto da Leopardi, è stato scritto nel 1836. Una tradizione aneddotica che non risponde peraltro a verità vedeva il poeta comporre questi versi sul letto di morte; pure se falsa, si tratta di un’immagine utile a comprenderne la definitività.

Il tema è la debolezza dell’uomo e la sua inevitabile e veloce discesa nel nulla; la natura, che pure ha partorito l’uomo, lo osserva in questa sua caduta senza intervenire e quasi compiacendosene. La poesia è svolta in maniera completamente lirica; non vi sono gli inserti «filosofici» e «razionali» che caratterizzano altri testi leopardiani; per molti aspetti, non escluso quello lessicale, ci troviamo di fronte a un riepilogo di temi che provengono anche dalle primissime prove del nostro poeta.

La poesia si apre con un’immagine notturna - il tramonto della luna che dà il titolo -  che copre tutta la strofa e costituisce il primo termine di una grande similitudine, chiarita all’inizio della seconda strofa. La similitudine è organizzata in un unico lungo periodo -  22 versi -  che abbraccia eccezionalmente due strofe, a mostrarne la centralità espressiva.

Si noti l’insistenza su parole già presenti in altre poesie, soprattutto relativamente all’infinito e alle sue manifestazioni (tra cui l’orizzonte); e la centralità assunta dalla luna, tema figurale il cui trattamento si può confrontare con quello del Canto notturno. Anche qui la luna assume, insieme alla grande funzione allegorica di rappresentare il corso della vita umana, il ruolo di simbolo della natura, che vola sopra gli uomini ignorandone le sofferenze, di membro di quel “mondo degli dèi” rappresentato, ironicamente, alla terza strofa.

Lassù, nel mondo eterno degli dèi, la nostra misera sorte di uomini sarebbe apparsa troppo felice e gioiosa, se la giovinezza fosse durata per tutto il tempo della vita, per quanto nella stessa giovinezza i pochi piaceri che si provano, più illusori che reali, siano il frutto di una grande quantità di sofferenze (cfr. altri luoghi, ad es. La quiete dopo la tempesta).

Il tema del viaggiatore proviene dalla tradizione letteraria; in Dante, ad esempio, la vita è intesa come viaggio destinato alla vita eterna; in Petrarca vi è l’idea del pellegrinaggio, già citata nel Canto notturno; ma qui il senso è diverso, perché per Leopardi l’uomo davvero non sa quale sia il suo destino, la sua strada è tutta da percorrere; l’unica certezza - si veda ancora il Canto notturno -  è l’abisso orrido, immenso della morte.

La vecchiaia come estrema infelicità, evocata alla fine della poesia, è un altro luogo comune dell’autore: si confronti ad es. in Pensieri, VI:

La morte non è male: perché libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i deside­rii. La vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti i piaceri, lascian­dogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori.

Riflessione sulla differenza fra la condizione dell’uomo e quella della natura: questa sembra morire ogni sera per poi ritornare il giorno dopo, la vita dell’uomo con la morte si estingue e non torna più.

Se confrontiamo gli ultimi versi con il progetto di inno Ad Arimane ci rendiamo conto che gli Dèi sono un altro modo per dire la  Natura. Anche questo canto dunque si iscrive nelle posizioni dell’ultimo Leopardi, quello della protesta con­tro la natura nemica dell’uomo.

Quale in notte solinga,

sovra campagne inargentate ed acque,

là ‘ve zefiro aleggia,

e mille vaghi aspetti

e ingannevoli obietti

fingon l’ombre lontane

intra l’onde tranquille

e rami e siepi e collinette e ville;

giunta al confin del cielo,

dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno

nell’infinito seno

scende la luna; e si scolora il mondo;

spariscon l’ombre, ed una

oscurità la valle e il monte imbruna;

orba la notte resta,

e cantando, con mesta melodia,

l’estremo aThor della fuggente luce,

che dianzi gli fu duce,

saluta il carrettier dalla sua via;

 

tal si dilegua, e tale

lascia l’età mortale

la giovinezza. In fuga

van l’ombre e le sembianze

dei dilettosi inganni, e vengon meno

le lontane speranze,

ove s’appoggia la mortal natura.

Abbandonata, oscura

resta la vita. In lei porgendo il guardo,

cerca il confuso viatore invano

del cammin lungo che avanzar si sente

meta o ragione; e vede

che a se l’umana sede,

esso a lei veramente è fatto estrano.

 

Troppo felice e lieta

nostra misera sorte

parve lassù, se il giovanile stato,

dove ogni ben di mille pene è frutto,

durasse tutto della vita il corso.

Troppo mite decreto

quel che sentenzia ogni animale a morte,

s’anco mezza la via

lor non si desse in pria

della terribil morte assai più dura.

D’intelletti immortali

degno trovato, estremo

di tutti i mali, ritrovàr gli eterni

la vecchiezza, ove fosse

incolume il desio, la speme estinta,

secche le fonti del piacer, le pene

maggiori sempre, e non più dato il bene.

 

Voi, collinette e piagge,

caduto lo splendor che all’occidente

inargentava della notte il velo,

orfane ancor gran tempo

non resterete; che dall’altra parte

tosto vedrete il cielo

imbiancar novamente, e sorger l’alba:

alla qual poscia seguitando il sole,

e folgorando intorno

con sue fiamme possenti,

di lucidi torrenti

inonderà con voi gli eterei campi.

Ma la vita mortal, poi che la bella

giovinezza spari, non si colora

d’altra luce giammai, nè d’altra aurora.

Vedova è insino al fine; ed alla notte

che l’altre stadi oscura,

segno poser gli Dei la sepoltura.

 

3.4. Frammento: Odi Melisso, i’ vo’ contarti un sogno  

Come nel canto Alla luna, dopo tutto il lungo cammino dei Canti anche qui si parte dall’idea che l’astro è uno strumento di memoria, ma con un importante cambiamento: ciò che Alceta ricorda non è la realtà, bensì un sogno. (La forma - un’egloga - e il nome del protagonisti ci portano in un tempo ancestrale, quello di Arcadia; esso è propriamente un tempo sognato, il tempo della felicità perduta.)

C’è anche una sorta di illustrazione di una forma proverbiale: «desiderare la luna», e della sua realizzazione. Lo sguardo di Alceta è certo uno sguardo desiderante, e la luna, una volta tanto, acconsente e scende sulla terra.

Puntuale, la realizzazione del desiderio porta la disillusione: la luna non è l’immensità luminosa che Alceta credeva, si rivela «grande quanto una secchia»; e mostra il suo meccanismo, poiché funziona come una specie di fuoco artificiale, fremente e sooppiettante. Il suo luogo non è la terra, ma il cielo: perché ben presto qui da noi decade e muore.

Alceta nel frammento rappresenta la modalità sognante, il pensiero poetante; Melisso incarna invece il principio di realtà. Nulla di strano, obietta, che possa cadere la luna: non ci sono le stelle cadenti? cosa vi sarebbe di diverso? Certo, la luna è una sola, è, come diceva il vecchio Cariteo, L’Una... Per questo al dolce Alceta il suo sogno appare conturbante, ma, ancora una volta, la natura ha leggi uguali dappertutto, luna o stella non importa. Leopardi è insieme l’uno e l’altro pastore, nella poesia opera il medesimo sdoppiamento che abbiamo trovato nel Canto notturno  

(Frammento di egloga)

ALCETA

Odi, Melisso: lo vo’ contarti un sogno

di questa notte, che mi torna a mente

in riveder la luna. Io me ne stava

alla finestra che risponde al prato,

guardando in alto: ed ecco all’improvviso

distaccasi la luna; e mi parea

che quanto nel cader s’approssimava,

tanto crescesse al guardo; infin che venne

a dar di colpo in mezzo al prato; ed era

grande quanto una secchia, e di scintille

vomitava una nebbia, che stridea

s'ì forte come quando un carbon vivo

nell’acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo

la luna, come ho detto, in mezzo al prato

si spegneva annerando a poco a poco,

e ne fumavan l’erbe intorno intorno.

Allor mirando in cisl, vidi rimaso

come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia,

ond’ella fosse svelta; in cotal guisa,

ch’io n’agghiacciava: e anoor non m’assicuro.

 

MELISSO

E ben hai che temer, che agevol cosa

fora cader la luna in sul tuo campo.

 

ALCETA

Chi sa? non veggiam noi spesso di state

cader le stelle?

 

MELISSO

                         Egli ci ha tante stelle,

che picciol danno è cader l’una o l’altra

di lor, e mille rimaner. Ma sola

ha questa luna in ciel che da nessuno

cader fu vista mai, se non in sogno.

 

Vi sono però in questo enigmatico frammento (perché un testo cosi esplicita­mente ironico, se non apertamente comico, in una raccolta per cui dire che prevalgono i toni elegiaci e malinconici è dire ancora poco?) dei fili più nascosti che chiedono di essere dipanati.  

 

3.4.1. Il tema delle stelle cadenti

In fondo, Leopardi parla, ancora una volta, di desiderio. Abbiamo già visto come la «caduta della luna» sia la realizzazione del modo proverbiale per dire il desiderio smodato. C’è un modo di dire collegato: esprimi un desiderio quando cade una stella. Le stelle del cielo non si possono contare, il desiderio cioè è infinito quanto a numero. Ma se cade la luna? il desiderio sarebbe uno e irripetibile, perciò, se fosse soddisfatto, non ci sarebbe ulteriore possibilità di desiderare, dunque vi sarebbe la felicità. «Desiderare la luna» equivale dunque a desiderare la felicità. Cosa impossibile da ottenere. Anche perché questa realizzazione avrebbe la pericolosa natura del nulla: nel sogno di Alceta, la luna muore alla terra e muore al cielo. Qui, come in molti altri suoi passi (si confronti, nelle Operette morali,  il Coro di morti nel dialogo di Federico Ruysch e della mummia), Leopardi si avvicina a quelle concezioni orientali che intendono la felicità come annullamento.  

 

3.4.2. Il pericolo del desiderio: paura della felicità

Se davvero realizzassimo la felicità, dunque, passeremmo al nulla. Ciò (cfr. ancora il Coro di morti) è talmente lontano dalla nostra esperienza che, per quanto sul piano razionale sia cosa comprensibile e desiderabile, su quello del sentimento è cosa che produce paura, come l’ignoto sempre ci fa paura. La contemplazione della ferita che la luna caduta ha lasciato nel cielo agghiaccia addirittura il sensibile Alceta, il quale è stato tanto pervaso da questa paura che non è ancora convinto di essere «in salvo». Gli uomini, dunque, si illudono di desiderare la felicità: in realtà, danno il nome di felicità a qualcosa di sconosciuto, di cui hanno paura. Troviamo qui, come raramente nei Canti quell’uso dell’ironia che invece caratterizza le Operette morali.  

 

3.4.3. Il tema della dialettica vuoto/pieno e dell’essere del nulla

II problema vero e grave, per Leopardi, sta nella stessa dicibilità di questo stato che sarebbe la felicità. Esso è nulla, ma del nulla noi non abbiamo espe­rienza, poiché siamo avvezzi a conoscere l’essere. Come fa il nulla, che ne è negazione, ad essere? come può darsi un «solido nulla», un nulla esistente?

Alceta si rende perfettamente conto dell’assenza, nel cielo, dell’astro: c’è un buco, una nicchia, lo stampo lasciato da ciò che era e ora non è più, sul genere dei morti di Pompei. Il vuoto non è, ma essendo delimitato dal pieno, ha pur sempre dei confini che lo definiscono. Questo vuoto è poi origine, stampo, matrice dell’essere, che vi si deposita per venirne formato. C’era, forse, una nicchia prima della luna; può formarsi, dentro quello stampo, un nuovo astro uguale al precedente.

Proviamo però a spingere questi limiti del vuoto oltre i confini della nostra esperienza, proviamo a negarli completamente: quel che rimane è il nulla. Ma non rimane proprio nulla, e noi possiamo pensare di abitarlo, questo nulla, solo a costo di non-essere. Per maneggiare questo non-ente siamo costretti a trasformarlo in ente, attribuirgli un essere speciale, ma comunque contraddittorio. Finché siamo nell’essere non ammettiamo il non-essere. Sul piano morale, meglio questa vita infelice, che una non vita incomprensibile.  

 

3.4.4. Il tema di Lilith

La nicchia nel cielo, lasciata dalla stella cadente, ci riporta a una tradizione che aveva attraversato l’astronomia post-rinascimentale (materia cara agli studi del ragazzo Leopardi, che aveva scritto, fra l’altro, un’ erudita Storia dell’astronomia): la luna nera. Ne abbiamo già trovato una traccia in Giordano Bruno.

Alceta la sogna, in fondo: sogna un «barlume, un’orma, anzi una nicchia» che occupa lo spazio dell’astro notturno, qualcosa che riempia il vuoto lasciato da Selene quando scende in cerca di Endimione. S'è visto che questa «luna nera» è Lilith, colei che è stata cancellata dalla storia e dalla mitologia. È una sorta di verità nascosta, che si intravede soltanto in negativo, poiché è conoscenza del vuoto.

L’illusione è, ci ha detto il poeta, la luna splendente nel cielo; ahimé, noi siamo a caccia della verità, non siamo Eva ma Lilith, non luce ma tenebra, non illusione ma rassegnazione, non pieno ma vuoto, non essere ma nulla. Questa luna nera rincorreremo sempre, ma non raggiungeremo mai, poiché non possiamo comprendere il non essere; e in questo la nostra natura ci è benigna: come ben sa Alceta, se potessimo conoscere la verità, non potremmo che esserne agghiacciati.

C’era bisogno di un poeta per rivelare questo sentire che ci appare vero ma ci è difficile cogliere come verità, perché esso, sul piano razionale ci appare incomprensibile: la ragione non è in grado di conoscere, di esprimere giudizi, se non sull’essere, dunque il nulla le sfugge.