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Pleniluni e quarti di luna

 

Riflessi di storia mirese

da Mira – Guida per itinerari Venezia, Arsenale, 1985

IL BURCHIELLO

La strada naturale fra Venezia e Padova, fino a che ferrovie e automobili non sconvolsero un ordine millenario, è stata quella per acqua, lungo il Brenta. Per commercio o per diporto, lungo secoli e secoli, si andò lungo il fiume, con infinite fogge di natanti, e ne nacque una vera e propria civiltà. Mira ebbe stirpi di barcaroli: un’arte che non s’è ancora del tutto perduta.

Molti furono i viaggiatori che, fin dai tempi lontani, scrissero di questo viaggio e dei molli rollii propri all’andare per acqua. Per citarne uno: ecco Ogier d’Anglure. Precursore dei moderni estensori di guide turistiche, egli si recò nell’ultimo scorcio del Trecento in Terrasanta, a Gerusalemme, e fornisce a chi intenda ripetere l’avventura tutte le più utili notizie in un’opera famosa, Le saint voyage de Jherusalem. Dopo una descrizione delle ricchezze artistiche di Venezia da far invidia ai più moderni e documentati baedeker, ricorda come gli capitasse, per assistere a un torneo – con la stessa naturalezza con cui andremmo alla partita di calcio – di recarsi «da Venezia a Padova per acqua», proseguendo poi sul litorale verso l’Istria e Pola.

Logico che, col passare dei secoli e l’aumentare dei traffici, si rendesse necessario qualcosa di più che lo sporadico invio di barche lungo il Brenta. Si istituì, col tempo, una linea vera e propria di trasporto pubblico: il Burchiello. Era, nel periodo di massimo splendore, un’imbarcazione coperta, finemente intagliata sui fianchi, che con cadenza quotidiana faceva la spola fra la regina della laguna e la dotta Padova. Un’imbarcazione elegante, usata soprattutto da villeggianti e da nobili, che si intrattenevano durante il viaggio, contemplando la bellezza del paesaggio, in onesta (e meno onesta) conversazione con i compagni e le compagne di percorso, e in soste alle locande, per attendere il passaggio attraverso le chiuse o il cambio dei cavalli, che trainavano dalle rive la barca come fosse una carrozza.

Più d’uno fra questi viaggiatori, illustri e non, immortalò il piacevole viaggio nelle proprie opere. Adriano Banchieri, per esempio, scrittore e musicista bolognese che aveva trovato lavoro come organista a Venezia, scrisse, all’inizio del Seicento, una curiosa operina per musica concepita come una sequenza di madrigali, spesso parodistici degli autori alla moda come Luca Marenzio o Carlo Gesualdo da Venosa: è La barca di Venetia per Padova; il Burchiello, appunto. In essa sono di scena i curiosi personaggi che si era soliti incontrare sull’imbarcazione: mercanti, studenti all’università di Padova, pescatori, i barcaroli, e poi donnine allegre, o delinquenti che svaligiavano i passeggeri. Si tratta, nel complesso, di un vivace e ancor fresco documento di vita di ogni giorno, piacevolmente allegro.

Il grande secolo del Burchiello fu però il Settecento: e nella letteratura ne è rimasta grande traccia. Lo canta - né poteva farne a meno! attento com’era ai grandi e piccoli fatti della vita - Carlo Goldoni, che gli dedica un poemetto in ottave, notando, con tirchia pignoleria, come «Passasi con piacer di loco in loco, / e per lungo cammin si spende poco», e con cronometrica precisione che «quel vaghissimo naviglio, / di specchi e intagli e di pitture ornato... ogni venti minuti avanza un miglio»; ne parla Ga­sparo Gozzi, come pure il fratello Carlo. Non poteva non parlarne Giacomo Casanova: vi si recò era un burchiello del servizio notturno, quello per i poveri – ancora fanciullo a Padova, per studiare, in compagnia della madre e del poeta libertino Giorgio Baffo. Fu per lui un giorno importante: vedendo dal finestrino, alle prime luci dell’alba, gli alberi sulla riva, gli parve che si movessero; saputo che era un’illusione, comprese, con grandi lodi da parte del Baffo, come non fosse il sole a muoversi, ma la terra: da cui la sua propensione per il libero pensiero, oltre che per tutte le altre, note libertà che si prese.

Il più illustre navigatore in burchiello è forse stato Wolfgang Goethe: gli lasciamo la parola, perché la descrizione del viaggio è ancora del tutto attuale:

Soltanto poche parole sul viaggio da Padova a Venezia: la navigazione sul Brenta con un pubblico battello, in compagnia di gente ben educata (perché gli italiani sono riguardosi fra loro) è comoda e piacevole. Le rive sono abbellite da giardini e da padiglioni, piccoli villaggi si affacciano alla sponda, costeggiata a tratti dall’animata strada maestra. Poiché il corso del fiume è regolato da chiuse, bisogna spesso fare delle piccole soste, di cui si può approfittare per dare un’occhiata al paese e per gustare i frutti che vengono offerti in abbondanza. Poi si risale sul battello e si continua la nostra via, attraverso un mondo vivace, tutto fertilità e animazione.

Logico che la tradizione dovesse riprendere. Ora, il Burchiello è un’elegante e comoda barca a motore, che parte a giorni alterni da Padova e da Venezia, e scorre tranquilla lungo il Brenta, fermandosi di tanto in tanto per la visita alle ville maggiori, per il pranzo, per le chiuse... proprio come ai tempi di Goethe. Non c’è dubbio che, per chi davvero voglia conoscere l’essenza della Riviera e di Mira, sia il mezzo più indicato: quello con cui più penetrante e sottile si respira il dorato profumo della nostalgia.

 

 

MIRA E LA LETTERATURA

Non si può escludere che Dante Alighieri, nel comporre la Divina Commedia , pensasse di unire alla grande vicenda del viaggio nell’aldilà, una sorta di enciclopedia che comprendesse cielo e terra, sul modello del Trésor composto dal suo maestro Brunetto Latini. Nel poema sono infatti molti gli interlocutori che danno notizie utili e attendibili: fra l’altro, vi troviamo una delle testimonianze letterarie più antiche su Mira: nel quinto canto del Purgatorio, il poeta mette in bocca queste parole a Jacopo del Cassero, ambasciatore dei Malatesta presso Padova e Venezia, che cadde vittima di un’imboscata fra le paludi del Mirese: «Ma s’io fosse fuggito in ver la Mira , / quando fu’ sovragiunto ad Oriaco, /Ancor sarei di là dove si spira. / Corsi al palude, e le cannucce e ‘l braco / m'impigliar sì, ch’i’ caddi; e lì vid’io / delle mie vene farsi in terra laco».

Non interessa qui tanto notare che, per essere menzionate allora, le località di Mira e di Oriago dovevano avere una certa importanza; piuttosto, è bello scoprire come Dante abbia perfettamente individuato, con pochi magistrali tratti, la natura del territorio mirese: si è tentati di pensare che il poeta conoscesse direttamente quest’area. La palude, la barena sono ancora adesso una sua rilevante caratteristica: e il sangue che scorre dalle vene di Jacopo, da rivoli che s’allargano a formare un lago, descrive suggestivamente i fiumi e i canali, che scendono a formare la laguna. Per gli eruditi, il luogo della morte di Jacopo è individuabile: si tratta della località detta Malcanton, allora allagata in seguito a uno dei molti tagli operati nella lunga lotta fra Veneziani e Carraresi; sembra che l’ambasciatore volesse recarsi a Gambarare, ma restasse bloccato appunto al Malcanton, in seguito al taglio aperto sul canale e di cui non era a conoscenza.

Per Mira ebbe ventura di passare il grande filosofo francese Michel de Montaigne, durante il viaggio che lo portò, fra il 1580 e il 1581, in Svizzera, Germania e Italia, di cui diede conto, con il piglio del cronista turistico (non mancano indicazioni sui costi degli alberghi, sulla qualità dei cibi, su tutte le piccole comodità, sulle attenzioni che il turista deve avere per trovarsi a proprio agio) nel famoso Journal du voyage en Italie. In queste note, individua già allora le caratteristiche fondamentali della Riviera, notando anche le cose che maggiormente potevano interessare il pubblico francese:

Partimmo [da Padova] sabato [5 novembre 1580] di primo mattino, per una bella corsa lungo il fiume, costeggiando pianure fertili e molto ombreggiate dagli alberi, ordinatamente disseminati nei campi coltivati a vigne, e lungo la strada dappertutto belle case da vacanza, fra le altre una casa di quelli di stirpe Contarina, sulla porta della quale c’è un’iscrizione che vi si fermò il re ritornando di Polonia.

Questa lapide c’è ancora a Villa Contarini, sul portale lungo il fiume; è interessante notare come quello ricordato fosse un fatto di attualità: il re, di cui parla Montaigne, è Enrico III di Valois, allora regnante in Francia. Egli effettivamente si fermò a villa Contarini, nel 1574, tornando in Francia per essere incoronato. In quell’occasione si diede nella villa una grande festa.

I successivi appunti di Montaigne illuminano sul funzionamento del carro di Fusina:

Ci recammo a Lizza Fusina, dove pranzammo. È poco più di un’osteria dove ci si imbarca per recarsi a Venezia. Vi si recano tutte le barche che scendono il fiume, e vi sono meccanismi e pulegge. Due cavalli le fanno girare come quelli che volgono i frantoi per l’olio. Le barche, per mezzo di ruote che vi si mettono sotto, vengono alzate su un tavolato di legno. per gettarle quindi nel canale che conduce al mare sul quale giace Venezia. Ci fermammo a mangiare, e, presa una gondola, dopo cinque miglia, arrivammo a Venezia.

Al ritorno, Montaigne sperimenta il tipico mezzo di trasporto del luogo, la barca trainata dalle rive del fiume:

Sabato 12 novembre, partimmo al mattino e, dopo cinque miglia, arrivammo a Lizza Fusina. Qui, uomini e bagagli, salimmo in barca per due scudi. Egli [Montaigne] era solito soffrire l’acqua; ma, essendo dell’opinione che fosse soltanto il movimento a dargli noia allo stomaco, volendo sperimentare se il movimento del fiume, eguale e uniforme considerato anche che la barca era tirata da cavalli, gli dessero noia, vi fece esperimento e trovò che non ne ebbe male alcuno. Su questo fiume bisogna passare due o tre chiuse, che si chiudono e aprono per chi passa.

Qualche decennio più tardi, Alessandro Tassoni, in quel capolavoro in bilico fra epica e commedia che è La secchia rapita, descrive, un po’ serio e un po’ faceto, le truppe in campo per una battaglia, divise per luoghi di appartenenza: vi appaiono fieramente in armi anche le forze del Mirese: «... e, di là della riviera / della Brenta, le terre ove serpeggia / la Tergola e ‘l Muson fremendo ondeggia. / Camposampier, Balò, Sala e Mirano, / Stra, la Mira , Oriago, il Dolo e Fiesso, / Arin, Caltana, Melareo, Stigliano, / e ‘l popol di Boglione era con esso».

Fu nel Settecento che di Mira si parlò, non più per foschi fatti d’arme o per eroicomiche vicende di guerre più burlesche che reali, ma perché il paese era diventato una specie di appendice festaiola e vacanziera della Serenissima Repubblica di Venezia.

Gasparo Gozzi era un vero e proprio aficionado di Mira, e in molti luoghi delle sue opere se ne parla. C’è persino la relazione di una gita, che condusse lo scrittore in gran compagnia d’amici alla villa Contarini dei Leoni, per ammirare l’allora appena compiuto affresco del Tiepolo, raffigurante l’accoglienza ad Enrico III di Francia, giunto in quella villa: lo stesso episodio cui è dedicata la lapide già notata da Montaigne. Un altro letterato veneziano molto legato a Mira fu Antonio Longo, che anzi vi teneva una villa.

Tuttavia, le cose forse più tipiche e interessanti le disse allora Carlo Goldoni. Il commediografo, attento, da buon pittore della vita quotidiana, ai costumi del milieu borghese veneziano, indugia, a descrivere le piacevolezze dei viaggi in barca lungo il Naviglio. Già allora doveva esser viva la tradizionale ospitalità mirese: Goldoni è infatti colpito, oltre che dalla dovizia di ville e di parchi, dalle osterie e dai ristoranti.

Alla fine del secolo scorso, con occhi molto diversi, un altro grande scrittore e poeta visita Mira: Gabriele d’Annunzio. Coerentemente con la sua posa di vate tardoromantico, egli vi trova un clima di decadenza, dalla grande carica poetica.

Ecco Fusina e la sua laguna, visitata d’autunno:

È come una landa stigia. una visione dell’Ade, un paesaggio di vapori e d’acque. Ovunque brillano specchi d’acqua alla luna. Si veggono a un tratto Canali tutti argentei perdersi in una lontananza vaporosa. Tutta la terra irrigua vapora come in un sogno, inargentandosi. Si sente la vicinanza della città acquatica. Il gelo notturno scende.

Ed ecco il viaggio lungo il Brenta, verso Malcontenta:

Il tram costeggia la Brenta che ha l’aspetto d’un canale tra alberi verdi. Appaiono le ville. le rovine: prima la Villa Foscara , disabitata. Rimangono qua e là le statue.

Statue sui pilastri dei cancelli, statue nel mezzo di un Orto, tra i cavoli. Statue su i muri di cinta.

Le ville sono state restaurate, trasformate in case volgari, abitate da gente modesta; ma le statue testimoniano il lusso della vita anteriore. Ancora qualche parco che scende fin su la riva. Gli alberi sono colorati dall’autunno. Tutta la campagna è dolce, delicata, sotto un sole lento. Navigano per la Brenta le barche nere, tratte da cavalli per lunghe funi. I cavalli camminano su l’argine, al passo. E la barca pesante va sull’acqua lenta lenta...

Oltre a questi, molti altri letterati hanno scritto di Mira, oppure vi si sono riferiti nella vita. Due Viaggi in Italia – di Goethe (ne abbiamo parlato a proposito del burchiello) e del Taine - vi fanno riferimento; un racconto di Aldous Huxley, Littie Mexican, è denso di velate suggestioni miresi e brentane. Venendo più avanti, sono noti i rapporti che con Mira ebbero due grandi della cultura veneziana: il drammaturgo Giacinto Gallina e Riccardo Selvatico: fine scrittore, il secondo, ma soprattutto sindaco di Venezia e fondatore della Biennale internazionale d’arte.

Affezionato alla cittadina sul Brenta fu Ugo Fasolo, fine giornalista e narratore, recentemente scomparso.

La tradizione letteraria mirese continua tuttora, e numerose sono le pubblicazioni che si susseguono anno dopo anno: ricordiamo un po’ alla rinfusa alcuni autori: Lorenzo Marcato Quagliardi, Alberto Finistauri, Cesare Tomasetig, Antonio Minto, Giorgio Beninato. Sicuramente, a questi, con gli anni, si aggiungeranno molti altri nomi, a testimoniare la vitalità della cultura mirese.

MIRA E LE ARTI

Lo scorrere molle del fiume riflette da secoli le splendide architetture delle ville. Sulle rive, antichi parchi, alberi secolari: l’arte del giardinaggio, che disciplina la natura e la stessa vita delle piante, è connaturale alla Serenissima, grande manipolatrice di equilibri naturali, a salvaguardia di se stessa e del proprio am­biente. Nel Settecento, i giardini delle ville sul Brenta raggiungono il loro massimo splendore. E, sempre nel Settecento, Mira di­venta oggetto di un’altra grande arte. La pittura scopre un nuovo genere, la veduta: e i paesaggi sul Brenta sono subito al centro di questo interesse. Altre volte, i panorami sono soltanto contesto di più importanti lavori. Giovambattista Tiepolo, per esempio, affresca il salone di villa Contarini dei Leoni, illustrandovi la storia della visita di Enrico di Valois a Mira: un evento del 1574. Ma sullo sfondo della scena è la Mira del Settecento, con, in bella vista, lo stesso edificio che ospitava il dipinto. La teoria di ville sulla riva è concepita come un fondale di teatro, davanti a cui si svolge l’azione, densa com’era nell’uso allora di personaggi e situazioni.

Nel Settecento si estende la voga della villeggiatura sul Brenta: come in ogni stagione turistica che si rispetti, i disegnatori e gli incisori fanno a gara per rappresentare i luoghi della Riviera. L’abate Coronelli, cosmografo della Serenissima Repubblica, produce un coscienzioso catalogo disegnato delle ville sul Brenta. Un incisore dal nome esotico, Johann Christoph Volkamer, naturalista di provenienza tedesca, nelle sue molte, eleganti tavole, accoppia curiosamente le immagini delle ville con quelle di diverse varietà di agrumi: un limone mostruoso per la Malcontenta , un cedro per Palazzo Moro, un bel limone dalla buccia sottile a Palazzo Bembo... Ma è con Gian Francesco Costa che la rappresentazione del paesaggio mirese ha la sua massima glorificazione. Nelle splendide incisioni, l’elegante vita in villa trova una minuta, analitica rappresentazione; il fiume appare animato di barche e le rive, operose e movimentate da carri e carriole, di operai adibiti a trasporti.

Nell’Ottocento, caduta la Repubblica di S. Marco, la Serenis sima si impoverisce; gli artisti cominciano ad emigrare. Un notevole pittore veneziano, di nascita mirese Antonio Zona è uno di essi. Nato a Gambarare nel 1814, studiò a Venezia con Grigoletti e Politi. Partecipò a molte manifestazioni collettive. Poi se ne andò a Milano, finché, ormai avanti con gli anni, giunse a Roma, dove, nel 1892, morì.

Bravissimo pittore romantico, specialista in scene di genere, attento studioso dell’arte veneziana, fu ottimo ritrattista. Suoi i ritratti di personaggi della casa sabauda.

Di Fusina, verso la sboccatura del Brenta, era originario Luigi Nono, che, con genialità, ha rappresentato l’arte veneziana dalla fine dell’Ottocento al primo Novecento.

Dal 1856 al 1912 fu segretario dell’Accademia veneziana Domenico Fadiga. La sua dimora preferita era una villa sul Brenta a Mira, lungo quel Naviglio sul quale affluivano i pittori veneziani intenti a captare la bellezza della Riviera e a trasferirla sulle loro tele. Sono da ricordare Pietro Fragiacomo, Giuseppe Ciardi, Egisto Lancerotto, ma due sono i maggiori: Ettore Tito, maestro incontrastato dell’arte veneziana, che, aveva casa fra Mira e Dolo, e rappresentava spesso paesaggi miresi, e Alessandro Milesi, pure autore di vedute dal soggetto brentano.

Lino Selvatico, notevole ritrattista di Padova, veniva spesso a Mira. Vi si trasferì stabilmente Vittorio Tessari, nato a Castelfranco nel 1860, abile pittore di genere e fine disegnatore. Mori nel 1947. Sulle rive del Naviglio dipinsero anche Millo Bortoluzzi, di Dolo, ed Alberto Prosdocimi.

Nel periodo fra le due guerre mondiali continuò l’attenzione dei pittori veneziani per la Riviera : a Mira operarono Oscar So­gàro (che vi abito a lungo), Neno Mori, Marco Novati, Fioravante Seibezzi, Luigi Tito (il figlio di Ettore), Eugenio da Venezia, Carlo Dalla Zorza e Luigi Candiani.

Nacque una paesaggistica più moderna, tendente a una rappresentazione del vero immediata e attenta alla verità atmosferica e ambientale. In quel periodo, presidente dell’Accademia veneziana fu il mirese Giovanni Bordiga: fu lui a far chiamare l’architetto Iscra, per il Parco delle Rimembranze, fra la chiesa di S. Nicolò e villa Contarini.

Intanto, venne ad affermarsi a Mira Beppi Spolaor: nato nel 1910, seguì gli insegnamenti di Vittorio Tessari, ed ebbe qualche suggestione da Sogàro; tese tuttavia a inserirsi sulla scia di Ettore Tito. Studiò alla Scuola d’arte dei Carmini, e fu un personaggio della cultura brentana negli anni Trenta e Quaranta. Rappresentò il paesaggio mirese in notevoli lavori ad olio; mori nel 1950 a San Paolo del Brasile.

Dopo la guerra, si è invece fatto luce un altro mirese, Clauco Benito Tiozzo, nato a Buse, nel territorio di Gambarare, l’1.3.1928. Ebbe per maestro Arturo Martini, che lo portò con sé all’Accademia di Venezia: solo Zona, fra gli artisti miresi, la frequentò prima di lui. Elaborò la sua arte spesso in contrasto con mode e accademie, tendendo al recupero della maniera veneziana, traducendo il lessico dei classici in forme attuali. Il suo lavoro ha imposto un’originale visione pittorica, collocandolo fra i protagonisti della pittura veneziana contemporanea. Ha rinnovato tecniche antiche, come l’affresco, sovente rimontato su tela o tavola, prendendo spesso a soggetto scene brentane, cui il vibrante cromatismo assegna dimensione universale; anche a queste opere si deve la notorietà della Riviera. Attualmente occupa la cattedra di Pittura dell’Accademia di Venezia, che fu già di Ettore Tito.

Notissimo restauratore, Tiozzo è apprezzato studioso dell’arte veneziana: i suoi contributi appaiono regolarmente su riviste e in volumi, fra cui fondamentale per l’area mirese è Le ville del Brenta da Lizza Fusina alla città di Padova (1977); ha pubblicato inoltre racconti e novelle.

L ‘interesse per la pittura e le arti a Mira è più che mai vivo: molti sono coloro che vi si dedicano.

Il paesaggio del Naviglio ha interessato anche la fotografia. Dei molti che si sono, con successo, cimentati in questo settore, ricordiamo Giuseppe Bruno.

Se la pittura ha goduto a Mira grandi fasti, non sono da meno il teatro e la musica.

Senza contare la presenza di mostri sacri, come Eleonora Duse, che hanno cominciato proprio qui la loro carriera, il teatro a Mira ha sempre avuto, fino a due o tre decenni fa, una diffusione notevole. Ogni frazione aveva il suo teatrino e la sua compagnia.

Bande, suonatori popolari, (qualche nome: Ortes detto «Campanea», maestro di banda; il violinista Simionato; Gino Salviato, clarinettista) hanno goduto di una locale celebrità. È da pochi anni rinata la Banda cittadina di Mira, erede di questa tradizione. Però la musica, nel pensiero popolare, è sempre associata all’opera lirica; e qui stanno anche i maggiori ricordi per Mira.

Barbara Marchisio, per esempio: il grande contralto rossiniano, che venne a concludere la propria vita proprio a Mira. E qui si fermarono, o vi ebbero amicizie, anche altre grandi voci della lirica: Adelaide Manso Borghi, Aureliano Pertile, Toti dal Monte... Forse però la gente ricorda con più affetto, cantanti meno noti, figli però di Mira, che non ne sono fuggiti: come il baritono Bettetto o Giulio Mion.

   

BYRON E LA SUA RESIDENZA MIRESE

Il poeta giunse a Mira nella primavera del 1817: era da poco arrivato a Venezia, dove aveva alloggiato in casa Segati, e, evidentemente ritenendo opportuno conformarsi alle usanze locali, pensò subito di cercare una casa di villeggiatura, in riva al Brenta, dove passare i propri momenti di tranquillità e riposo. Trovò ben presto: forse, la sua scelta fu influenzata dalla storia del palazzo in cui stabilì la propria residenza.

Anticamente di proprietà della famiglia Foscarini, vide due rampolli dell’illustre stirpe al centro di oscure trame sentimental-spionistiche, sul genere caro allo scrittore inglese. Nel 1622, fu la volta di Antonio Foscarini: un falso delatore denunciò una relazione amorosa fra lui e altra suggestione già byroniana! la contessa inglese Anna d’Arundel. Si trattava, chiaramente, di cosa pericolosa per la sicurezza della Repubblica Serenissima, e pesanti furono le grane per il povero Foscarini. Più avanti un altro della famiglia, Melchiorre, fu coinvolto nella relazione fra sua moglie e Antonio Farsetti: la vita in villa era spesso teatro di simili tresche.

Byron non perse tempo a ridare vita all’antica tradizione del palazzo: tanto per cominciare, vi portò la figlia del suo ospite veneziano, Marianna Segati, con la quale, si narra, intrecciò una relazione fin dai primi giorni del suo soggiorno nella Serenissima. Ma non era tipo da accontentarsi di un unico amore: e fu proprio a Mira che trovò una delle donne che più lasciarono il segno sulla sua vita: quella Margarita Cogni che, per essere moglie di un fornaio, egli chiamò sempre la Fornarina.

Ma lasciamo la parola allo stesso Byron: così scrive al suo edi­tore John Murray, il primo agosto del 1819:

Poiché desiderate conoscere la storia di questa Margarita Cogni, sarete accontentato: vi avverto solo che può esser lunga. Il suo volto ha l’antica bellezza veneziana e la sua figura, anche se forse eccessivamente alta, non è da meno, specie se adorna del costume nazionale. Nell’estate del 1817, Hobhouse [un amico di Byron n.d.r.] ed io stavamo girovagando a cavallo lungo il Brenta, di sera, quando notammo in un gruppo di contadini due belle ragazze:da tempo non ne vedevamo di così graziose...

Erano cugine: Margarita era sposata, l’altra nubile. Byron si organizza un appuntamento con la Cogni , e Hobhouse con l’amica: quest’ultimo non ha fortuna, perché, secondo la pittoresca espressione della Fornarina, solo le donne sposate potevano fare all’amore con gli estranei. Al poeta invece va meglio, e incomincia una relazione che, pur punteggiata da infiniti altri amori, durerà a lungo, essendo Margarita convinta (come riferisce Byron nella stessa lettera), che

«...può averne altre cinquecento, ma prima o poi torna sempre da me». Le ragioni erano anzitutto la sua persona, scura, alta, tipica faccia veneziana, splendidi occhi neri, e altre qualità che non è necessario specificare; aveva ventidue anni, e non avendo mai avuto figli non si era rovinata la figura né altre cose; inoltre era una vera veneziana, nel dialetto, nel modo di pensare, nell’espressione, insomma in tutto e per tutto, con l’ingenuità e l’umore buffonesco dei suoi concittadini... Per altri aspetti era un poco selvaggia e prepotente, non si faceva scrupolo di presentarsi quando ne aveva voglia, senza badare a tempi lunghi o persone; e se trovava altre donne sul suo cammino era capace di prenderle a sberle.

Dopo varie scenate con altre amiche del poeta, e adducendo a motivo le continue liti col marito, Margarita si installa a casa di Byron, e vi rimane a lungo, senza che egli mai vi avesse esplicitamente consentito. In fondo, gli faceva anche comodo, poiché la donna si rivelò brava massaia, e le spese del poeta si ridussero rapidamente della metà. Fu dura la fatica per liberarsene, anche perché essa doveva essere davvero affascinante, anzi, una della poche donne che potessero dire di aver davvero conquistato l’indiavolato inglese. Ma divenne a un certo punto difficile sopportare i suoi comportamenti spregiudicati e piuttosto violenti, per cui, con estrema difficoltà, la Cogni fu estromessa da casa Byron. La sua residenza mirese vide, fra le altre, ancora un’ospite che avrebbe avuto grande importanza nella sua vita: la contessina Teresa Guiccioli di Ravenna, che vi riparò per sottrarsi agli sguardi indiscreti del... marito, e vi si trattenne col poeta.

Stupisce che in questa farandola di avventure, piaceri e amori, avanzasse ancora tempo per scrivere: invece, la vitalità di Byron doveva essere eccezionale: durante il soggiorno veneziano, e quindi anche nella villeggiatura a Mira, riuscì a portare a termine il Childe Harold Pilgrimage, e a scrivere il Don Juan e varie altre opere poetiche: quelle che, vendute a caro prezzo in Inghilterra sull’onda dello scandalo, gli permettevano di condurre in Italia una vita sfrenata e senza preoccupazioni economiche.